Oggi compio 97 anni. Mi sono svegliato come ogni mattina: nessuna candela, nessun biglietto, nessuna chiamata.
Vivo in una piccola stanza sopra un negozio di ferramenta ormai chiuso. Il proprietario non mi chiede quasi nulla, soprattutto da quando gli ho sistemato le tubature lo scorso inverno. Ho poco: un letto che cigola, un bollitore, e la mia sedia preferita accanto alla finestra. Da lì guardo passare gli autobus. È la mia compagnia.
Questa mattina ho camminato fino al panificio, due isolati più in là. La ragazza al banco mi ha sorriso con quella cortesia che si riserva agli sconosciuti. Ci vado ogni settimana, ma oggi sembravo invisibile. Le ho detto piano: “Oggi è il mio compleanno.” Lei ha risposto: “Tanti auguri,” come se lo leggesse da un copione.
Ho comprato una piccola torta, vaniglia e fragole. Ho anche chiesto di scriverci sopra “Buon 97° compleanno, Signor L.” Mi sono sentito sciocco a chiederlo, ma l’ho fatto lo stesso.
Tornato nella mia stanza, l’ho posata sulla cassa che uso come tavolino. Ho acceso una sola candela, mi sono seduto, e ho aspettato.
Non so cosa aspettassi, davvero. Mio figlio, Marco, non mi chiama da cinque anni. L’ultima volta che ci siamo parlati, gli ho fatto notare quanto sua moglie fosse fredda con me. Forse non avrei dovuto. Ha messo giù il telefono, e fine. Nessun’altra chiamata, nessuna visita. Non so nemmeno dove viva, adesso.
Ho tagliato una fetta di torta. Era buona: morbida, dolce. Ho scattato una foto con il mio vecchio cellulare a conchiglia e l’ho inviata al numero che ancora ho salvato come “Marco”. Ho scritto solo: “Tanti auguri a me.”
Poi ho guardato lo schermo, aspettando i tre puntini.
Non sono mai apparsi.
Sono rimasto lì un po’. Ne ho mangiata un’altra fetta. La crema era troppo zuccherata, ma le fragole erano vere, non quelle surgelate del mercato. Ho guardato di nuovo il telefono. Ancora niente.
Forse ha cambiato numero. O forse mi ha bloccato.
Non lo saprò mai.
Mi sono avvicinato alla finestra. Mi sono seduto e ho guardato un autobus fermarsi di fronte. Una madre aiutava il figlio a salire. Un ragazzo in giacca e cravatta le teneva la porta. Poi, di nuovo il silenzio.
Un’ora dopo, ho sentito bussare alla porta d’ingresso.
Tre colpetti, rapidi.
Nessuno bussa più, oggigiorno.
Mi sono infilato il cardigan e sono sceso. Le scale non sono più gentili con me, ma ce l’ho fatta. Quando ho aperto, c’era una ragazzina. Avrà avuto quattordici, forse quindici anni. Capelli ricci, zaino rosso, occhi pieni di esitazione.
«Lei è il signor L.?» ha chiesto.
Ho annuito, confuso.
«Mi chiamo Sofia. Credo di essere… sua nipote.»
Giuro che il cuore si è fermato per un secondo.
Ha tirato fuori il telefono e mi ha mostrato il messaggio che avevo mandato. A quanto pare, Marco ha passato quel vecchio cellulare a lei “per emergenze”. E lei, riordinando i messaggi, ha trovato il mio.
«L’ho mostrato a papà. Mi ha detto di lasciar perdere. Ma… io volevo conoscerla lo stesso.»
Non riuscivo a parlare. Restavo lì, come pietrificato.
«Ho portato una cosa», ha aggiunto. Ha aperto lo zaino e ne ha tirato fuori un disegno: un cartoncino con cuori ritagliati e una scritta in pennarello blu:
“Buon compleanno, nonno. Spero non sia troppo tardi per conoscerla.”
Mi sono messo a piangere lì, sulla soglia. Non con urla, ma silenziosamente, come un rubinetto che gocciola senza fine.
L’ho fatta entrare. Ci siamo seduti sul mio letto e abbiamo diviso la torta. Mi ha raccontato che ama dipingere, che si è sempre chiesta perché non conoscesse la famiglia di suo padre. Le ho parlato di Marco da piccolo: di come metteva il ketchup sulle uova e di quelle calze spaiate che insisteva a portare ogni giorno in seconda elementare.
Prima di andare via, ha scattato un selfie con noi due. Ha detto che lo stamperà e lo metterà nella sua cameretta.
«Posso tornare il prossimo weekend?» ha chiesto, con la mano sulla maniglia.
Ho annuito. Non riuscivo ancora a parlare.
Quando è andata via, sono rimasto a guardare il suo zaino rosso finché non è sparito dietro l’angolo.
Quella notte, il telefono ha fatto ding.
Un messaggio da un numero sconosciuto.
Diceva solo:
“Grazie per essere stato gentile con lei. — M.”
Ho fissato a lungo quel messaggio.
La vita non ci dà sempre finali perfetti.
A volte ci regala soltanto una fessura. Un varco piccolo.
E forse, quello basta.