La bambina rientrò a casa tenendo tra le mani una scatolina antica, sporca di terra, che aveva trovato vicino alle tombe. Appena la nonna la notò, il suo volto perse colore. Senza dire una parola, afferrò il telefono e compose il numero della polizia con dita tremanti.

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Ogni sera, poco dopo il tramonto, la signora Adele tirava le tende con un gesto lento ma deciso, come a chiudere un sipario su un mondo che non voleva più guardare. Il suo appartamento, incastonato tra vecchi palazzi dai balconi arrugginiti, respirava una routine ferrea: tende, radio accesa su onde medie, tazza di tisana fumante. Così da decenni, come un rituale privato.

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Le finestre davano su un antico convento abbandonato, dove le erbacce avevano preso il posto dei canti. Nei giorni di vento, sembrava che i cipressi raccontassero storie dimenticate, sussurrando tra le foglie come vecchie comari.

Il sabato pomeriggio segnava l’arrivo di Matteo, il nipote di nove anni, che suonava il campanello con impazienza e saliva le scale due gradini alla volta. Adele gli apriva sempre con un sorriso, anche se gli occhi tradivano un’ombra.

— Nonna! Ho trovato una cosa strana! — esclamò quel giorno, brandendo un piccolo sacchetto logoro.

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— Prima ti lavi le mani — disse lei, senza nemmeno guardare il contenuto.

Il bambino tornò in cucina, le dita ancora bagnate, e con un’espressione eccitata aprì il sacchetto sul tavolo. Dentro, una medaglietta arrugginita, un foglietto ingiallito con parole scritte in latino e… un minuscolo osso.

— Era nel cortile del convento. Vicino a un muro crollato.

Adele si fece seria. Certe cose non si trovano per caso. Prese il foglietto e lesse a voce bassa: “Ossa custodita, anima mai perduta.”

Le tremò leggermente la mano.

— Dove l’hai preso esattamente?

— Sotto una pietra. C’era anche un barattolo rotto.

Il tavolo sembrò farsi più freddo sotto le dita. Adele riconosceva quello stile calligrafico. L’aveva visto anni prima, nei quaderni della sorella maggiore, Luisa, scomparsa nel 1974.

— Lo mettiamo in una scatola e domani lo riportiamo là dove l’hai trovato. — disse infine, ma il tono era incerto.

Quella sera, mentre Matteo guardava un cartone animato, Adele si chiuse in camera. Prese una vecchia agenda e sfogliò fino a una data cerchiata in rosso: 13 ottobre 1974. Accanto, un solo appunto: “Luisa — convento.”

Il telefono squillò all’improvviso. Era il suo fratello minore, Ernesto.

— Hai letto il giornale? Dicono che nel convento hanno trovato ossa umane.

Adele si aggrappò alla sedia.

— Matteo ha trovato qualcosa. Un osso. E… una medaglietta. Apparteneva a Luisa. Ne sono certa.

Silenzio.

— Devi andare alla polizia.

— Lo so — sussurrò. — Ma ho paura di quello che potrei ricordare.

Il giorno seguente, un ispettore bussò alla porta. Adele raccontò tutto, consegnò il sacchetto, e indicò il punto dove Matteo l’aveva trovato. Dopo ore di domande, rimasero solo silenzio e tazze di tè fredde.

— Nonna — disse Matteo la sera — la zia Luisa era buona?

Adele lo guardò a lungo.

— Era… troppo buona. E a volte, il mondo non è gentile con chi è così.

Passarono giorni. I giornali cominciarono a parlare di “ritrovamenti sospetti”, di “vecchi segreti nel convento”. Alcuni vicini iniziarono a evitarla. Altri la guardavano con curiosità morbosa.

Poi, una telefonata dalla procura.

— Signora Adele, la medaglietta aveva iniziali incise: L.D. Sappiamo che sua sorella si chiamava Luisa Delmare?

— Sì — rispose con voce rotta.

— Abbiamo aperto un’indagine ufficiale. Le chiederemo di venire a testimoniare.

Quella notte sognò Luisa, seduta su una panca del convento, il viso rivolto al sole. Quando Adele si avvicinava, la sorella si voltava, ma non aveva più volto. Solo luce.

Il mattino dopo, Adele sistemò i capelli, indossò il vecchio cappotto buono, e uscì. Camminava piano, ma con passo fermo. Ora sapeva: a volte, il passato torna a cercarti non per punire… ma per essere finalmente raccontato.

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