— C’è nessuno laggiù? — sussurrò Elisa, puntando il debole raggio della torcia sotto il vecchio cavalcavia.
L’aria era densa di umidità e odore di terra marcia. Ogni passo affondava nel fango come in una palude. Dopo un turno infinito in pronto soccorso, sentiva le gambe rigide, ma quel suono — un gemito flebile nell’ombra — le fece dimenticare la stanchezza.
Scese con cautela lungo il pendio, tenendosi alle radici esposte e ai sassi vischiosi. La torcia illuminò una piccola sagoma rannicchiata contro il cemento umido. Un bambino. Nudo, coperto di melma, tremava.
— Santo cielo… — mormorò, avvicinandosi piano.
Il piccolo non si mosse. Gli occhi, spenti e opachi, non reagivano alla luce. Elisa agitò lentamente la mano davanti al suo volto. Nessuna reazione.
— Non può vedere… — sussurrò, sentendo il cuore stringersi.
Si tolse la giacca e lo avvolse, sollevandolo con cura. Era gelido, come scolpito nel ghiaccio.
Un’ora dopo, arrivò l’agente Danesi. Annotò tutto con aria scettica, poi alzò le spalle.
— Non è la prima volta. Domattina lo portiamo in comunità.
— No, — disse Elisa, stringendo il bambino contro di sé. — Verrà a casa con me.
Riempì la vasca di acqua tiepida, lo lavò con delicatezza, come fosse vetro. Lo avvolse in una coperta e lo adagiò sul divano. Non parlava, ma quando Elisa gli offrì la mano, lui la strinse e non la lasciò per tutta la notte.
Al mattino, sua madre bussò, vide il bambino e spalancò gli occhi.
— Ma ti sei bevuta il cervello? Sei giovane, da sola, e fai fatica ad arrivare a fine mese!
— Non lo lascio. Non potrei mai.
— E se salta fuori la famiglia?
— Dopo averlo scaricato così? Che si facciano avanti.
La madre sbatté la porta andandosene. Ma quella sera, il padre lasciò sullo zerbino una scatola con una pagnotta e un biglietto: “Domani ti porto uova e farina.”
I giorni seguenti furono silenziosi. Il bambino — che Elisa iniziò a chiamare semplicemente “piccolo” — non parlava, non mangiava molto, sobbalzava a ogni rumore. Ma cercava la sua mano nel buio.
Una sera, mentre lei cantava a bassa voce, lui si voltò. E sorrise.
— Ti piace questa canzone? — sussurrò Elisa. — Ti va se ti chiamo Luca?
Nessuna risposta. Solo un respiro più profondo. E il suo corpo che si strinse al suo.
La gente del quartiere mormorava. Qualcuno lodava, qualcuno condannava. Ma Elisa ignorava tutto. C’era solo lui. Luca.
Dopo qualche settimana, lui imparò a riconoscere i rumori della casa. Si muoveva con una grazia timida, toccando i muri, ascoltando i suoni. Sapeva quando il tè stava per bollire, sentiva il fruscio dei vestiti nella stanza prima che lei entrasse.
Un giorno disse, piano:
— Il tuo passo fa luce.
Elisa lo abbracciò, commossa.
Poco dopo conobbero Michele, il nuovo vicino. Insegnava musica. Aveva un viso gentile, mani grandi e voce profonda. Si sedette accanto a Luca con delicatezza.
— Ti va di ascoltare una storia con le dita?
E gli porse un libro in Braille.
Luca toccò le pagine con stupore. Poi sussurrò:
— Le parole… vibrano.
Michele cominciò a frequentare la loro casa. Portava libri, insegnava canzoni, descriveva il mondo con parole che sembravano suoni. Diceva:
— Luca sente ciò che noi abbiamo dimenticato.
Il bambino cresceva. A sette anni, conosceva ogni angolo di casa. Riconosceva i fiori dall’odore e i passanti dal modo in cui camminavano. Diceva cose che facevano tacere anche i più scettici:
— Oggi la tua voce è triste, mamma. Hai pianto?
Elisa non rispondeva, lo abbracciava.
Luca amava le cose semplici: il pane caldo, il suono della pioggia, il profumo del basilico sul davanzale.
Un giorno disse:
— Qui è casa. Anche se non vedo.
E fu allora che Elisa capì: lui non era un peso, ma una luce.
A dodici anni, Luca parlava come un poeta. Descriveva il mondo con immagini che nessuno vedeva. Diceva:
— I sogni hanno voce. E la tua è sempre dolce.
La biblioteca locale iniziò a ospitare letture delle sue storie, trascritte da Michele. I bambini ascoltavano in silenzio. Alcuni, con gli occhi lucidi.
Nessuno parlava più di centri specializzati. Al contrario, tutti volevano imparare da lui.
E un giorno, mentre Elisa apparecchiava la tavola, Luca le toccò la mano e disse con serenità:
— Sono felice che tu sia la mia mamma.
Lei si voltò, con le lacrime agli occhi, e sussurrò:
— E io sono fiera di essere la tua.