Sotto un vecchio ponte, ho scoperto un bambino di tre anni, cieco e lasciato solo nel mondo. Nessuno si è voltato a guardarlo, nessuno ha teso la mano. L’ho accolto nella mia casa e nel mio cuore, e da quel giorno l’ho cresciuto come fosse sangue del mio sangue.

Advertisements

 

— C’è nessuno laggiù? — sussurrò Elisa, puntando il debole raggio della torcia sotto il vecchio cavalcavia.

Advertisements

L’aria era densa di umidità e odore di terra marcia. Ogni passo affondava nel fango come in una palude. Dopo un turno infinito in pronto soccorso, sentiva le gambe rigide, ma quel suono — un gemito flebile nell’ombra — le fece dimenticare la stanchezza.

Scese con cautela lungo il pendio, tenendosi alle radici esposte e ai sassi vischiosi. La torcia illuminò una piccola sagoma rannicchiata contro il cemento umido. Un bambino. Nudo, coperto di melma, tremava.

— Santo cielo… — mormorò, avvicinandosi piano.

Advertisements

Il piccolo non si mosse. Gli occhi, spenti e opachi, non reagivano alla luce. Elisa agitò lentamente la mano davanti al suo volto. Nessuna reazione.

— Non può vedere… — sussurrò, sentendo il cuore stringersi.

Si tolse la giacca e lo avvolse, sollevandolo con cura. Era gelido, come scolpito nel ghiaccio.

Un’ora dopo, arrivò l’agente Danesi. Annotò tutto con aria scettica, poi alzò le spalle.

— Non è la prima volta. Domattina lo portiamo in comunità.

— No, — disse Elisa, stringendo il bambino contro di sé. — Verrà a casa con me.

Riempì la vasca di acqua tiepida, lo lavò con delicatezza, come fosse vetro. Lo avvolse in una coperta e lo adagiò sul divano. Non parlava, ma quando Elisa gli offrì la mano, lui la strinse e non la lasciò per tutta la notte.

Al mattino, sua madre bussò, vide il bambino e spalancò gli occhi.

— Ma ti sei bevuta il cervello? Sei giovane, da sola, e fai fatica ad arrivare a fine mese!

— Non lo lascio. Non potrei mai.

— E se salta fuori la famiglia?

— Dopo averlo scaricato così? Che si facciano avanti.

La madre sbatté la porta andandosene. Ma quella sera, il padre lasciò sullo zerbino una scatola con una pagnotta e un biglietto: “Domani ti porto uova e farina.”

I giorni seguenti furono silenziosi. Il bambino — che Elisa iniziò a chiamare semplicemente “piccolo” — non parlava, non mangiava molto, sobbalzava a ogni rumore. Ma cercava la sua mano nel buio.

Una sera, mentre lei cantava a bassa voce, lui si voltò. E sorrise.

— Ti piace questa canzone? — sussurrò Elisa. — Ti va se ti chiamo Luca?

Nessuna risposta. Solo un respiro più profondo. E il suo corpo che si strinse al suo.

La gente del quartiere mormorava. Qualcuno lodava, qualcuno condannava. Ma Elisa ignorava tutto. C’era solo lui. Luca.

Dopo qualche settimana, lui imparò a riconoscere i rumori della casa. Si muoveva con una grazia timida, toccando i muri, ascoltando i suoni. Sapeva quando il tè stava per bollire, sentiva il fruscio dei vestiti nella stanza prima che lei entrasse.

Un giorno disse, piano:

— Il tuo passo fa luce.

Elisa lo abbracciò, commossa.

Poco dopo conobbero Michele, il nuovo vicino. Insegnava musica. Aveva un viso gentile, mani grandi e voce profonda. Si sedette accanto a Luca con delicatezza.

— Ti va di ascoltare una storia con le dita?

E gli porse un libro in Braille.

Luca toccò le pagine con stupore. Poi sussurrò:

— Le parole… vibrano.

Michele cominciò a frequentare la loro casa. Portava libri, insegnava canzoni, descriveva il mondo con parole che sembravano suoni. Diceva:

— Luca sente ciò che noi abbiamo dimenticato.

Il bambino cresceva. A sette anni, conosceva ogni angolo di casa. Riconosceva i fiori dall’odore e i passanti dal modo in cui camminavano. Diceva cose che facevano tacere anche i più scettici:

— Oggi la tua voce è triste, mamma. Hai pianto?

Elisa non rispondeva, lo abbracciava.

Luca amava le cose semplici: il pane caldo, il suono della pioggia, il profumo del basilico sul davanzale.

Un giorno disse:

— Qui è casa. Anche se non vedo.

E fu allora che Elisa capì: lui non era un peso, ma una luce.

A dodici anni, Luca parlava come un poeta. Descriveva il mondo con immagini che nessuno vedeva. Diceva:

— I sogni hanno voce. E la tua è sempre dolce.

La biblioteca locale iniziò a ospitare letture delle sue storie, trascritte da Michele. I bambini ascoltavano in silenzio. Alcuni, con gli occhi lucidi.

Nessuno parlava più di centri specializzati. Al contrario, tutti volevano imparare da lui.

E un giorno, mentre Elisa apparecchiava la tavola, Luca le toccò la mano e disse con serenità:

— Sono felice che tu sia la mia mamma.

Lei si voltò, con le lacrime agli occhi, e sussurrò:

— E io sono fiera di essere la tua.

Leave a Comment