Sonia era cresciuta in un piccolo villaggio tra colline verdi e tetti arrugginiti. La sua famiglia — il padre Ivan, la madre Maria e il fratellino Aleksej — lottava ogni giorno per arrivare alla fine del mese.
Ivan, con le mani screpolate dal freddo e dal lavoro, aggiustava tetti e recinti per i vicini o caricava fieno nelle fattorie quando c’era bisogno. Maria, curva sulla vecchia macchina da cucire, passava le notti a rattoppare abiti sotto la luce tremolante di una lampadina stanca. I soldi bastavano appena per il pane, qualche patata e, nei giorni buoni, un pezzo di carne.
Sonia, la maggiore, aveva imparato presto a conoscere il significato della fame. A sedici anni rinunciò per la prima volta alla cena, mentendo di non avere appetito, solo per lasciare l’ultimo cucchiaio di zuppa ad Aleksej, sempre magrolino e con la tosse. Di sera restava a guardare i profili neri degli alberi dietro il vetro della finestra e sognava un futuro in cui la sua famiglia non dovesse più contare le monete.
Il lavoro, in quel villaggio, era raro come la neve a giugno. I giovani partivano verso la città e chi restava si aggrappava a qualsiasi occasione. Sonia provò a fare la stessa cosa, ma ogni porta sembrava sbarrata. Suo padre ripeteva spesso: “Ce la caveremo, basta restare uniti”. Ma Sonia vedeva la sua schiena curvarsi sempre di più e lo sguardo della madre spegnersi giorno dopo giorno.
Nonostante la miseria, Ivan e Maria avevano sempre creduto nell’istruzione. “Studia, figlia mia,” le dicevano. “Solo la conoscenza può cambiarti la vita.” E Sonia lo prese come un giuramento.
Era diligente, instancabile. Vinse una borsa di studio e partì per l’università nella capitale. Lì tutto era diverso: il traffico, i libri nuovi, i corridoi pieni di voci e possibilità. Studiò economia con la speranza di aprire un’attività tutta sua, di restituire alla sua famiglia più di quanto avessero mai avuto.
Ma la realtà fu più dura di quanto avesse previsto. Alla fine degli studi, i posti migliori erano già stati presi da chi aveva conoscenze e conti in banca. Sonia tornò al villaggio con una valigia piena di sogni infranti e si accontentò di un lavoro come cassiera nell’unico negozio del paese.
Una sera, stanca e umiliata, stava sistemando delle ricevute sotto il bancone quando sentì due clienti parlare di un bando comunale: il villaggio cercava idee per rivitalizzare l’economia locale e offriva un piccolo finanziamento alle proposte più convincenti. Sonia si fermò. Le sembrò un segno.
Quella notte scrisse di getto un progetto: trasformare la vecchia casa della zia defunta in un piccolo laboratorio artigianale dove le donne del paese potessero cucire, fare conserve, tessere coperte. Creare un marchio locale, vendere online, riportare dignità al lavoro delle mani. Lo inviò senza dire nulla a nessuno.
Due mesi dopo arrivò la risposta: il progetto era stato selezionato. Non era molto denaro, ma abbastanza per cominciare.
Oggi, a distanza di cinque anni, Sonia gestisce con successo “Mani del Villaggio”, una cooperativa che dà lavoro a dieci famiglie. Aleksej studia medicina a San Pietroburgo. Maria ride spesso. E Ivan, sebbene ancora con la schiena curva, ha lo sguardo fiero.
Sonia, quando guarda fuori dalla finestra di casa, vede ancora gli alberi neri della sera. Ma ora sogna a occhi aperti — e sa che quei sogni hanno trovato radici nella terra da cui tutto era cominciato.