“Mamma… sto scrivendo e non credo proprio che tu voglia leggere, ma spero che almeno tu finisca queste righe.
Non ti ho capita. O meglio, non ti ho voluta capire. Credevo che fossi diventata un peso, un’ombra silenziosa che mi ricordava quanto non ero abbastanza presente. Ero stanca. Sempre in corsa, sempre schiacciata dal senso di colpa. E la soluzione più facile era allontanarti.
Ma ogni giorno che passava, da quando non rispondevi più, ho cominciato a rivedere tutto: la Volga venduta, i tuoi gioielli scomparsi per pagare i miei studi, la tua voce calma che diceva sempre “ce la facciamo”.
Non mi sono mai chiesta che cosa tu volessi.
E adesso so la verità.
La casa… era tua. È tua.
E tu, mamma, sei molto più forte di quanto io abbia mai saputo.
Se un giorno vorrai perdonarmi, io sarò qui. Anche solo per sedermi al tuo fianco, senza parlare.
Tua figlia,
Irina”
Chiusi la lettera con mani tremanti. Le parole avevano un peso, ma anche una carezza. Il mio cuore non si sciolse subito. Non era un film. Ma qualcosa si incrinò nella corazza che avevo costruito con pazienza.
Andai a fare lezione come ogni lunedì. Era il nostro gruppo di pittura. Quella mattina stavamo disegnando mani. Le mani raccontano più dei volti, avevo detto loro. Raccontano lavoro, abbracci mancati, carezze non date.
Dopo la lezione, mi sedetti accanto alla finestra. C’erano foglie che cadevano come piccoli fuochi dorati. E pensai: forse, un giorno, potrò risponderle. Forse non oggi. Forse non domani. Ma un giorno.
Perché perdonare non significa dimenticare.
Significa non permettere al dolore di decidere per te.