Papà se n’è andato, ma lei è rimasta: la donna che mi ha amato come una madre

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Un tempo la mia vita era semplice e felice. Vivevamo a Ekaterinburg: io, mia madre e mio padre. La nostra casa era piena di voci allegre, di abbracci improvvisi, di profumo di zuppe calde d’inverno. Ricordo ancora le risate di mia madre mentre cucinava. Ma la felicità, come spesso accade, non avverte prima di spezzarsi.

Avevo otto anni quando il nostro mondo cominciò a crollare. Mia madre si ammalò all’improvviso. La malattia avanzava veloce, ma noi ci aggrappavamo alla speranza. Poi, un giorno, papà tornò dall’ospedale, con lo sguardo perso nel vuoto, e disse solo: «La mamma non tornerà più». Da quel momento lui cambiò. La casa si spense con lei.

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Papà iniziò a bere. I pasti diventarono una rarità, la casa un cumulo di piatti sporchi e silenzi. Andavo a scuola con gli stessi vestiti stropicciati, e gli insegnanti cominciarono a parlarmi piano, come si fa con chi si teme di ferire. Alla fine, furono i vicini a segnalare la situazione.

Un giorno si presentarono due donne con taccuini e sguardi duri. Esaminarono la cucina, la camera, il soggiorno. Poi dissero a mio padre: «Ha un mese di tempo per cambiare tutto, altrimenti il bambino verrà portato via».

Papà sembrò svegliarsi da un incubo. Smettette di bere, riordinò casa, riempì la dispensa. Iniziavo a pensare che forse saremmo riusciti a rialzarci.

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Fu in quel periodo che mi parlò di Larisa. La presentò come una vecchia amica di famiglia, ma in realtà era una sua cugina lontana, vedova, che viveva a Čeljabinsk con il figlio Vitja. All’inizio ero diffidente. Mi sembrava un tradimento dimenticare mamma così in fretta. Ma Larisa non cercava di sostituirla: era gentile, paziente. Piano piano mi affezionai.

Cominciammo a passare sempre più tempo da lei, fino a quando dissi a papà: «Da Larisa mi sento bene». Poco dopo, ci trasferimmo lì. Il tempo sembrava finalmente dalla nostra parte. Ritrovai la voglia di studiare, ridevo di nuovo.

Poi, un giorno come tanti, papà uscì per andare al lavoro. Non tornò mai più. Un infarto lo portò via, all’improvviso. Avevo dieci anni. Rimasi solo.

Tre giorni dopo, bussarono alla porta. Gli assistenti sociali dissero che Larisa non era legalmente una parente, e che quindi non poteva tenermi con sé. Mi portarono via, verso un istituto a Perm’. In tasca avevo solo il vecchio portachiavi di papà: il mio ultimo legame con la vita di prima.

L’orfanotrofio era freddo. Le giornate tutte uguali, i sorrisi rari. Mi chiusi in me stesso. Ma Larisa non mi abbandonò mai. Ogni settimana veniva a trovarmi con biscotti fatti in casa, libri, sciarpe calde. «Resisti, amore mio. Presto verrai a casa», mi diceva ogni volta.

Passarono mesi. Io ormai non ci credevo più. Poi, una mattina, mi chiamarono in direzione. Aprii la porta e la vidi: Larisa, con gli occhi lucidi e un sorriso che non dimenticherò mai. Accanto a lei c’era Vitja, cresciuto e con lo zaino sulle spalle.

— Vieni a casa, Sashenka — mi sussurrò.

Le corsi incontro e la abbracciai forte, senza dire nulla. Tornammo insieme a Čeljabinsk. Larisa diventò per me una madre. Una vera madre. Non avevamo molto, ma avevamo tutto quello che contava. Le sue mani erano sempre occupate a impastare, rammendare, accarezzare. E a ogni festa, ci riunivamo intorno a un tavolo e alle sue famose torte salate.

Crescemmo. Mi diplomai, mi iscrissi all’università, trovai un lavoro. Vitja ed io siamo diventati fratelli, nel cuore e nella vita.

Oggi, ognuno di noi ha una famiglia. Ma ogni fine settimana torniamo da lei. I suoi bliny ci aspettano in cucina, il profumo di casa è sempre lo stesso. Larisa ride con i nipoti e si commuove quando ci racconta com’eravamo.

La vita mi ha tolto tanto, ma mi ha dato qualcosa di prezioso: una madre che ha scelto di esserlo. Larisa mi ha insegnato la verità più profonda: una famiglia non è fatta di sangue, ma di chi ti ama davvero. E questo, non lo dimenticherò mai.

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