Quando l’infermiera aprì le pesanti porte del reparto maternità, guardò la giovane davanti a sé con un’espressione che cercava di essere gentile, ma non riusciva a nascondere il distacco.
«Vai con Dio, ragazza», disse con voce calma, quasi dolce. Ma nei suoi occhi c’era quella freddezza che non si rivolge a una persona, ma a un numero, a un’altra storia senza volto.
Un’altra madre sola. Nessuno ad aspettarla con fiori o palloncini. Nessun marito commosso, nessuna suocera agitata dalla gioia. Solo lei, minuta, con gli occhi stanchi e un fagotto tra le braccia che stringeva come un’ancora.
Le altre madri uscivano tra risate e abbracci. Portavano cioccolatini, champagne, gratitudine. Lei, no. Lei era invisibile.
Alice — così si chiamava la ragazza — fece un passo incerto fuori dall’ospedale. Era primavera, l’aria profumava di lillà e i passeri cantavano nei rami in fiore. In lontananza, un padre teneva tra le braccia il suo neonato, con gli occhi lucidi e un sorriso tremante.
Alice, invece, si fermò sul marciapiede, spaesata. Aveva chiamato un taxi ore prima. Nessuno era arrivato. Erano quasi le quattro del pomeriggio e il suo telefono taceva.
“Forse ho sbagliato io… forse l’operatore…” Ma la verità era un’altra: non aveva davvero un posto dove andare.
La porta dell’ospedale si chiuse rumorosamente alle sue spalle. Un gruppo festoso uscì chiacchierando e ridendo. Una donna in abito elegante teneva un mazzo di fiori più grande del neonato che era andata a prendere. Alice si sentì ancora più fuori posto.
Solo pochi mesi prima, mai avrebbe immaginato di trovarsi in quella situazione. Un anno prima era una studentessa brillante. Aveva sogni, un futuro, obiettivi chiari.
E ora? Ora stringeva al petto sua figlia, come se quel gesto potesse proteggerla da tutto. Le lacrime premevano, ma le ricacciò indietro. Non ora. Non davanti a lei.
Era arrivata in quella città da un piccolo paese, lasciandosi dietro una nonna anziana che l’aveva cresciuta dopo la morte dei genitori, quando Alice aveva solo dieci anni.
La nonna Valentina le ripeteva sempre: «Studia, tesoro. Hai la testa e il cuore giusti. Esci da questa miseria».
E così aveva fatto. Dopo la morte della nonna, Alice era riuscita a entrare all’università. Aveva vinto una borsa di studio. Era determinata, intelligente, piena di speranza.
Poi era arrivato lui. Nikita. Più grande di lei, affascinante, con un lavoro prestigioso e modi che facevano sentire Alice al sicuro. Si fidò. Si innamorò. Si trasferì a casa sua quasi senza rendersene conto.
Pensava fosse amore vero. Lui la stringeva forte, diceva parole dolci, sembrava proteggerla.
Ma ogni volta che lei accennava al matrimonio, lui sorrideva e cambiava discorso: «Che senso ha? Un foglio non cambia nulla…».
Alice però ci credeva. Avrebbero costruito una famiglia. Sarebbero stati felici.
E invece, quando scoprì di essere incinta, tutto cambiò. All’inizio pensava che fosse un nuovo inizio. Ma lui, al telefono, reagì con freddezza:
«Un figlio? E adesso che si fa?»
«Nikita… io lo voglio tenere.»
«Deciditi in fretta», disse, come se stesse parlando di cosa ordinare per cena.
In quel momento, Alice capì che era sola. Ma non poteva arrendersi.