Ospite prepotente pretende un tavolo gratis nel ristorante della “sua amica” — Peccato che la proprietaria fossi io.

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Ospite prepotente pretende un tavolo gratis nel ristorante della “sua amica” — Peccato che la proprietaria fossi io.
Lavoro nella ristorazione da quasi vent’anni, e se c’è una cosa che ho imparato è che certi clienti non cercano solo un piatto caldo, ma un palcoscenico.

E quella sera, Camilla era pronta a recitare.
Era sabato sera, il mio ristorante — Amaranto — era al completo.

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Un gioiello costruito con anni di sacrifici, notti in bianco e passione ereditata da mio padre, chef umile e geniale, morto troppo presto.
Non porto spesso il grembiule ormai, ma quel giorno mancava la manager e avevo deciso di stare in sala. Non mi dispiace mai tornare tra i tavoli. Mi ricorda da dove sono partita.

Eccole: sei donne truccate di tutto punto, risate alte, passi sicuri sui tacchi. Camilla al centro, vestita come per una première. Si piazza davanti al bancone e con un sorriso che poteva sciogliere il ghiaccio dice:
«Tavolo per sei. Siamo amiche della proprietaria.»

Il cameriere mi guarda. Le rispondo io, con gentilezza.
«Oh, davvero? E come si chiama la proprietaria?»
Camilla non esita un secondo.
«Giulia! Giulia… qualcosa. Non ricordo il cognome. Ma viene sempre al mio centro estetico. Una donna così gentile!»

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La guardo, in silenzio. Io sono Giulia. E non ho mai messo piede in un centro estetico che non fosse per tagliarmi i capelli ogni due mesi.
Sorrido.
«Capisco. Purtroppo questa sera siamo al completo. Ma se vuole lasciarmi un numero, posso avvisarla se si libera qualcosa.»
Camilla cambia tono. Fa un passo verso di me, storce la bocca.

«Mi sembra assurdo. Se fossi davvero amica della proprietaria, avrei già un tavolo. Ma forse è meglio che gliene parli io, no? Vedrà che farà una telefonata e risolverà tutto.»


Una delle sue amiche bisbiglia: «Questa qui fa la finta umile, ma si vede che ha zero potere.»
Un’altra ride: «Che noia la gente che si sente importante solo perché indossa un grembiule.»

A quel punto potevo svelare la verità. Ma qualcosa in me — forse il pizzico di vendetta poetica — mi spinse a fare altro.
Tornai al banco e dissi al sommelier:
«Riserva quel tavolo vuoto accanto alla cucina. È stretto, rumoroso, ma ha una vista perfetta… sullo staff al lavoro.»
Poi tornai da Camilla.
«Abbiamo trovato un tavolo. Non è in sala principale, ma è riservato agli ospiti più… speciali. È il nostro tavolo interno. E naturalmente, per scusarci, le prime tre consumazioni sono offerte.»
Camilla accettò subito, gonfiando il petto come un pavone.

Dieci minuti dopo erano sedute in fila indiana, circondate da vassoi caldi, urla da cucina, e il rumore costante del frigo industriale. Il sommelier servì loro i drink con eccessiva formalità, il nostro chef si assicurò che passassero accanto ai bidoni dell’organico ogni volta che portava un piatto.

Solo alla fine, al momento del conto, mi avvicinai.
«Tutto bene, signore?»
Camilla, con un filo di voce: «Sì… solo un po’ rumoroso.»
Sorrisi.

«Ne sono dispiaciuta. Ma sa com’è… quando la proprietaria è presente in sala, si fa in quattro per gli amici.»

Le sue amiche la guardarono. Lei sbiancò. Ma, per la prima volta quella sera, rimase zitta.
Pagò. In silenzio. E non tornò mai più.