Non voglio più vederti, mamma — Ma il tempo sa ribaltare tutto

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Non sono mai stata una madre perfetta. Ma ci ho provato, ogni giorno, ogni notte insonne, ogni sacrificio silenzioso. Ho cresciuto mia figlia da sola, con una mano stretta al carrello della spesa e l’altra al suo zainetto. Ho fatto da madre e padre, da conforto e da disciplina. Non avevamo molto, ma avevamo l’una l’altra — o almeno così credevo.

Poi crescono. E quando crescono, ti guardano con occhi nuovi. Occhi che non sempre ti riconoscono. Che non sempre vogliono ricordare.

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Mia figlia, Chiara, è andata via di casa a ventidue anni con una determinazione che avevo quasi invidiato. Ha trovato un lavoro, un uomo gentile, una casa con le tende abbinate ai cuscini. Ha avuto due figli, una routine e, apparentemente, tutto sotto controllo.

Io non volevo essere invadente. Mi ero promessa di non diventare quella madre appiccicosa che si presenta senza invito. Ogni visita era annunciata, ogni gesto calibrato. Ma ogni volta che andavo, mi sembrava di entrare in punta di piedi nella vita di qualcuno che non mi apparteneva più.

Due settimane fa era il compleanno del mio nipotino, Leonardo. Aveva compiuto cinque anni. Avevo preparato i biscotti all’arancia che Chiara amava da bambina. E, con le mie mani che tremano ormai più spesso, avevo scritto una dedica nel libro che gli avevo scelto: “Alla luce più dolce della mia vita, con amore eterno, la tua nonna.”

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Sono andata da loro con il cuore pieno, e la speranza di vedere nei suoi occhi un riflesso di quello che eravamo. Ma appena mi ha visto, Chiara ha abbassato lo sguardo. Mi ha fatto entrare con riluttanza, dicendo che non si aspettava visite — che era solo una festicciola informale tra amici. C’era gente che non conoscevo, risate che non mi includevano.

Quando ho chiesto se potevo restare almeno per l’apertura dei regali, ha sbuffato.

«Mamma, non puoi continuare a spuntare come se questa fosse ancora casa tua. Non lo è più. Ho bisogno che tu lo capisca.**

Parole taglienti. Non dette per ferirmi, forse. Ma che hanno colpito nel profondo.

Me ne sono andata senza fare rumore. Ho lasciato il libro sul tavolo dell’ingresso, accanto a una montagna di pacchetti più colorati e moderni. In macchina ho pianto. Pianto come non facevo da anni. Lacrime vecchie e nuove, mescolate a silenzi troppo lunghi.

Pensavo che fosse finita lì. Che Chiara avesse davvero tracciato un confine definitivo.

Ma tre giorni dopo, era alla mia porta.

Era pallida, spettinata, con gli occhi gonfi di chi non dorme da ore.

«Mamma… ti prego. Mi dispiace. Ho fatto una cosa terribile.»

L’ho fatta entrare senza parlare. Si è seduta sulla sedia della cucina, quella dove da piccola faceva i compiti mentre preparavo la cena. Ha tirato fuori dalla borsa il libro. Era strappato, la dedica sbiadita da un liquido — forse succo, forse lacrime.

«Leo è caduto ieri. Si è fatto male alla testa. Niente di grave, ma… mentre lo portavamo al pronto soccorso, piangeva e continuava a chiamarti. “Voglio la nonna. Dov’è la mia nonna?” E io… io non sapevo cosa rispondere.»

Mi guardava come si guarda qualcuno dopo una lunga assenza. Con fame e vergogna.

«Mi sono accorta che ho cercato di costruire una famiglia diversa… e nel farlo ho rinnegato le mie radici. Ma Leo sa chi sei. Ti ama. E io… io non posso più far finta che tu non sia parte di tutto questo.»

La sua voce si è spezzata. Io l’ho solo abbracciata. Non servivano parole.

Quel giorno non è tornata solo mia figlia. È tornata una madre che aveva perso la sua, ed è tornata una bambina che ricordava finalmente chi l’aveva amata per prima.

Da quel giorno, ogni domenica preparo il pranzo per tutti. Leo e la sorellina arrivano correndo. Chiara mi aiuta in cucina. E non si vergogna più di chiamarmi “mamma” davanti a nessuno.