I primi mesi erano gesti gentili: una minestra calda lasciata sul fornello, una coperta piegata sul divano, biscotti fatti in casa.

Quattro anni.
Sono tanti.
Soprattutto quando ogni mattina ti svegli con il nodo allo stomaco e ogni sera ti addormenti con il pensiero: “Quanto ancora posso resistere?”

Io, mio marito Marco e la nostra piccola Anita viviamo nel trilocale della madre di lui, Rosalba Rossi, una vedova energica con lo sguardo appuntito e le mani sempre in movimento. Il suo regno è quell’appartamento alla periferia di Firenze — vecchio ma pulito, pieno di centrini, tende ricamate e divieti impliciti.

All’inizio, appena sposati, ci sembrava una soluzione temporanea. Avevo partorito da poco, Marco lavorava giorno e notte in officina e io, tra pappe e pannolini, cercavo qualche ora in biblioteca per non impazzire. Rosalba ci aveva detto: “Finché non siete in piedi, restate qui. Siamo famiglia.”

Ma le promesse, come il latte lasciato fuori dal frigo, scadono.

I primi mesi erano gesti gentili: una minestra calda lasciata sul fornello, una coperta piegata sul divano, biscotti fatti in casa. Poi… poi le crepe si sono allargate. Ogni giorno più strette. Ogni giorno più rumorose.

Una mattina, Anita aveva la febbre. Avevo passato la notte con lei in braccio, tra tachipirina e pezzette bagnate. Ero distrutta. Alle sette, mi ero appena seduta sul divano con la bambina addormentata addosso, quando Rosalba entrò in salotto. Guardò la tazza di tè mezza vuota sul tavolino e disse solo:
«Non è un albergo, qui.»

Avrei voluto urlare.
Avrei voluto chiederle: Ma dove sei quando piange di notte? Quando si sveglia alle quattro perché ha sognato un lupo? Quando ho tre ore di sonno e nessuno che mi chieda se sto bene?

Invece ho solo annuito. Come sempre.

Il giorno dopo, ho proposto a Marco di cercare un buco fuori città. Anche solo una stanza.
Ma lui si è morso il labbro, come fa sempre quando ha paura.
«Mamma non ci riuscirebbe da sola. E poi dove mettiamo Anita? Non possiamo permetterci nemmeno l’affitto di un garage.»
E allora io? Io come faccio?

Una sera, durante la cena, Rosalba ci guardava come si guarda un quadro storto. Aveva preparato la sua famosa zuppa di legumi, che io detesto. L’aveva messa nel piatto anche ad Anita, che l’ha solo spostata col cucchiaio.
«I bambini mangiano quello che c’è!», ha tuonato.

E Marco?
Ha abbassato lo sguardo.
Come sempre.

Così mi sono alzata.
Sono andata nella nostra stanza, ho chiuso la porta, ho preso carta e penna e ho fatto qualcosa che non avevo mai fatto: ho scritto tutto. Tutto quello che avevo dentro.

Non un messaggio, non una richiesta.
Una lettera.

Il giorno dopo l’ho lasciata sul tavolo della cucina.
Era per Rosalba. Ma anche per Marco.
Diceva:
“Non posso vivere una vita in cui ogni gesto è giudicato, ogni parola pesa. Amo mio marito, amo mia figlia. Ma ho bisogno di un posto dove possa respirare senza sentirmi in debito. Se non possiamo permetterci un altro appartamento, allora troverò un modo. Un secondo lavoro. Un terzo. Ma non posso crescere mia figlia in una casa dove ogni sorriso costa silenzio. E dove il silenzio è peggio delle urla.”

Non so cosa aspettassi. Forse niente. Forse solo uno sfogo.
Ma quella sera… Rosalba non ha detto nulla. Ha solo apparecchiato per tre, senza minestra.
E Marco mi ha guardata — davvero — per la prima volta da mesi.
«Se vuoi cercare qualcosa, ti aiuto. Ce la faremo.»

Non abbiamo ancora traslocato.
Ma c’è una nuova regola in casa: le parole si dicono, non si ingoiano.

E questo, forse, è già un primo passo verso casa.
Una vera casa.