Marina Pavlovna non era mai stata una donna impulsiva. Elegante, riservata, con lo sguardo mite ma deciso di chi ha imparato a osservare il mondo con pazienza. La sera in cui vide suo marito, Andrey, seduto in un lounge bar del centro con una ragazza dall’aspetto da influencer – lunghi capelli color miele, labbra gonfie di giovinezza e un top troppo corto per dicembre – non fece scenate.
Li osservò da lontano. Il modo in cui lui le toccava la schiena, quel sorriso tirato da adolescente in crisi di mezza età. Non servivano parole. La scena parlava da sé.
Marina tornò a casa. Mise una sonata di Rachmaninov in sottofondo e si versò un bicchiere di vino rosso. Nessuna crisi di pianto, nessuna chiamata alle amiche, nessuna valigia lanciata fuori dalla porta. Solo silenzio. E un piano.
Giorno 1.
Andrey dormiva ancora quando Marina si alzò. Aveva già mandato un messaggio a Daria, la sua ex collega e ora brillante consulente finanziaria. Insieme, passarono in rassegna ogni investimento, ogni proprietà, ogni firma apposta con leggerezza nel corso degli anni.
«Hai più potere di quanto pensi,» le disse Daria. «E lui non ha idea.»
Giorno 2.
Marina andò in ufficio. Nessuno la riconobbe: non ci andava da almeno otto anni, da quando aveva lasciato la gestione operativa dell’azienda per occuparsi della casa. Tuttavia, era ancora presidente onoraria – con pieni diritti di voto. Convocò un consiglio straordinario. Fece domande. Ottenne risposte. Alcuni soci sembrarono confusi, altri preoccupati. Lei, sorridendo con cortesia, chiese solo che tutto fosse verbalizzato.
Giorno 3.
Accompagnò sua madre dal parrucchiere e poi andò con lei a pranzo. Parlarono di tempo, di nipoti, di vecchi film sovietici. Marina non accennò mai a quanto stava accadendo. Ma nel pomeriggio, incontrò un avvocato esperto di diritto immobiliare. Prese visione dei contratti della villa, dell’appartamento in montagna, dei garage. Tutto intestato a lei, con deleghe generose firmate da Andrey negli anni in cui si fidava ciecamente.
Giorno 4.
Fece stampare una lettera. Poi due. Una per Andrey, una per l’amministratore delegato dell’azienda. Nessuna parola rabbiosa, nessuna accusa. Solo un elenco chiaro e dettagliato delle decisioni appena prese: revoca di deleghe, chiusura di conti congiunti, richiesta di accesso esclusivo ai locali aziendali, avvio del procedimento di separazione.
Infine, consegnò la terza lettera: una diffida, consegnata all’agenzia immobiliare che Andrey aveva usato per affittare “in nero” una delle proprietà – alla giovane bionda.
Giorno 5.
Era sabato. Marina si svegliò alle sei. Si fece una doccia, si vestì con un tailleur color crema e si mise un filo di rossetto. Quando Andrey si alzò, la trovò seduta in cucina, con il suo tablet davanti e una cartella piena di fogli ordinati.
«C’è qualcosa che non va?» chiese lui, stropicciandosi gli occhi.
Marina alzò lo sguardo.
«No, niente. Solo che da oggi sei un uomo libero.»
«Libero?»
«Sì. Ho firmato i documenti per la separazione. Ho già parlato con i tuoi avvocati. Puoi restare qui ancora una settimana. Poi la casa sarà ufficialmente mia. Come il resto.»
Andrey la fissò, pallido.
«Ma… Marina, cosa…»
Lei si alzò, raccolse la cartella e andò verso la porta.
«Ah, quasi dimenticavo. Dille che l’appartamento non è più disponibile. E che lo smalto rosso le sta malissimo.»
Uscì, chiudendo la porta dietro di sé con grazia.
Non si voltò. Non ce n’era bisogno.