Lena Nikolaeva era scomparsa la notte del suo ballo di fine anno nel 1990. Aveva diciotto anni, un vestito azzurro e sogni di teatro e libertà che la facevano brillare più delle stelle quella sera. Ma non tornò mai a casa. Nessuno la vide più.
I genitori, Nikolaj e Olga, si spezzarono dentro in modi diversi. Lei, silenziosa e chiusa nel suo dolore, continuava a preparare ogni anno la torta alla vaniglia di Lena, aspettandola. Lui, metodico e ostinato, si aggrappava ai fatti, agli indizi, ai numeri. Ma la verità era che la loro figlia era diventata un’assenza.
Quando nel 2012 Nikolaj trovò quell’album in soffitta, non si aspettava nulla. Era solo un modo per distrarsi, per sistemare, per sentirsi ancora utile in una casa che sembrava invecchiare più in fretta di loro. Sfogliava con mani stanche quando vide quella foto impossibile.
Lena. Più grande. Più magra. Con uno sguardo stanco ma vivo.
Sul retro, una scritta:
“2002. Sono viva. Mi dispiace. — L.”
Il cuore di un padre non ha bisogno di prove scientifiche per riconoscere il sangue del suo sangue. Nikolaj sapeva. Era lei. E se era viva nel 2002, forse lo era anche ora.
La scritta “Gostinica Zvezda” fu il primo indizio. Internet fece il resto. Kirghizistan. Un villaggio sperduto tra le montagne. E così, a 71 anni, Nikolaj fece le valigie. Non disse nulla a Olga. Non ancora.
Il viaggio fu lungo. Persone, stazioni, idiomi diversi, ma ogni passo sembrava ridargli anni invece che toglierglieli. Quando arrivò all’albergo, l’odore del legno e della pioggia di montagna gli strinse il petto come un vecchio amico che non vedeva da tempo.
La receptionist lo riconobbe.
«Lei è… suo padre. Me lo aveva detto, un giorno, che forse sarebbe venuto.»
Gli consegnò la busta. E Nikolaj, leggendo la lettera di Lena, capì che non era mai stata morta. Solo perduta. E forse, ora, voleva essere ritrovata.
Guidati da quella donna, salirono verso il villaggio indicato. Era una manciata di case di legno, circondate da betulle e silenzio. Il tempo lì sembrava più lento, o forse più giusto. Nikolaj vide una casa col portico e un’altalena sbiadita. Due bambini giocavano. Uno, più grande, aveva gli stessi occhi di Lena da bambina.
La porta si aprì.
Una donna, con i capelli raccolti e il viso segnato dagli anni e dalla vita, uscì.
Lo vide.
Rimase immobile.
Poi le mani le scivolarono sui fianchi. Le lacrime scesero, senza forza.
— Papà? — sussurrò.
Nikolaj non rispose. Le andò incontro. La abbracciò.
Non servivano parole.
Le parole erano state assenti per 22 anni. Ora bastava esserci.
Epilogo:
Lena raccontò. Di una fuga avventata, di un ragazzo sbagliato, di una catena di scelte peggiori. Di paura. Di vergogna. Di sopravvivenza. Ma anche di Artyom, nato nel 1997, cresciuto con amore. Di una nuova vita in una terra lontana. Di notti passate con la mano sospesa sul telefono, senza mai avere il coraggio di comporre un numero.
Quando Nikolaj tornò in patria, Lena era con lui. E Olga, alla vista della figlia sulla soglia, si appoggiò al tavolo per non cadere.
Non dissero nulla.
Si sedettero insieme.
E lei tagliò una fetta di torta alla vaniglia.