Avevo 50 anni, ventidue di matrimonio sulle spalle e una sensazione che non riuscivo più a ignorare: Jeffrey non era più con me. Non fisicamente, certo. Era lì, ogni tanto. Ma la sua mente, il suo cuore… erano altrove. Chiamate fatte nel corridoio, messaggi letti in silenzio, anniversari dimenticati, e uno sguardo che sembrava guardare sempre oltre me, mai dentro di me.
Così avevo preso in mano la situazione: una vacanza a sorpresa su un’isola remota, lontano da tutto e tutti. Niente telefoni, niente scuse. Solo noi. Pensavo: o ci ritroviamo, o ci perdiamo per sempre.
Ma non mi aspettavo che ci perdessimo già in volo.
Eravamo partiti tesi, in silenzio. Io avevo cercato di rompere il ghiaccio, lui aveva risposto con monosillabi. Quando finalmente mi addormentai sul volo, lo feci con un peso sul petto, come se il mio cuore sapesse già quello che stava per succedere.
Poi, quella voce.
Un tocco leggero sulla mia spalla.
«Mi scusi, signora…»
Era una giovane assistente di volo. Mi fissava con un’espressione indecifrabile: compassione? Urgenza?
«Suo marito è uscito per andare in bagno. Penso… penso che dovrebbe controllare la sua borsa a mano. Merita di sapere.»
La guardai incredula, il cervello ancora confuso dal sonno. Ma qualcosa nei suoi occhi mi fece aprire la fibbia senza fiatare.
Dentro, tra i soliti oggetti da viaggio, trovai una busta. Su di essa: “Per Sophia.”
Non il mio nome. Non il nome di nostra figlia.
Con le mani che tremavano, l’aprii.
Dentro c’era una collana con un ciondolo a forma di cuore, e una lettera. Lì, nero su bianco, Jeffrey confessava il suo amore per un’altra donna, una collega conosciuta da pochi mesi. Scriveva che stava aspettando “il momento giusto per parlare” e che questo viaggio con me sarebbe stato l’ultimo, solo per “chiudere in modo civile”.
Il cuore mi crollò nel petto. Tutto si fermò per un istante.
Poi sentii il rumore dello sciacquone e passi verso il suo posto.
Chiusi la borsa, infilai la lettera nella tasca interna della mia giacca e fissai il finestrino come se fosse il fondo di un abisso.
Lui si sedette accanto a me.
«Tutto bene?» chiese, distratto.
«Sì,» risposi. «Tutto benissimo.»