Come hai potuto farmi una cosa del genere?! Hai derubato tua madre e il tuo fratellino! — gridò la madre, facendo una scenata alla festa di inaugurazione della nuova casa della figlia.

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— Yulia, piccolina, non piangere… I capelli ricresceranno, non sono mica denti — la nonna cercava di consolare la nipotina accarezzandole la testa rasata, senza sapere cos’altro fare per fermare quei singhiozzi disperati. Come si affronta un dolore così? E soprattutto, come si raddrizza la mente ormai andata della madre?

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— Perché mi odia così? Perché? Ama Slava… ma me? A me…

La nonna poteva solo sospirare davanti a quelle domande. Mormorava che Yulia avrebbe capito crescendo. Ma Yulia, anche da adulta, non capì mai perché fosse stata punita con una rasatura a zero solo per aver colorato i capelli con gessetti acquistati con i suoi risparmi.

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Gessetti che sarebbero bastati pochi minuti d’acqua tiepida per lavarli via. O che si sarebbero comunque staccati da soli durante due ore di balli alla festa della scuola, a cui, ovviamente, Yulia non poté andare.

Il fratellino, invece, poteva fare tutto ciò che voleva. Nonostante fosse un maschio, iniziò a tingersi i capelli già a dodici anni. La madre non lo rimproverò mai, né gli disse che attirava guai. Nemmeno quando, all’ultimo anno di liceo, la sua ragazza rimase incinta. Al contrario, si mise a “sistemare la faccenda” organizzando matrimonio e convivenza per quei due ragazzini.

Quanto pianse poi, quando la ragazza — che in realtà non era nemmeno la sua fidanzata — decise di non portare avanti la gravidanza. Yulia la comprendeva: senza lavoro stabile, senza diploma, crescere un bambino da sola non era vivere. Slava non avrebbe certo aiutato: la madre lo aveva cresciuto così viziato da non essere capace nemmeno di badare a sé stesso.

Fu la madre ad accompagnarlo all’università, portandolo letteralmente per mano. Yulia li incrociò nel corridoio e per la prima volta fu grata che fingessero di non conoscerla. Dichiararsi parente di un diciannovenne incapace di consegnare da solo i documenti al decanato? Imbarazzante.

Sì, sua madre si era sempre vergognata di lei. La considerava strana, maleducata, inadeguata. O si vestiva “da sgualdrina” o “da suora”, mai come si doveva. Quando le tagliò i capelli con rabbia, poi la rimproverò pure perché sembrava un maschio. Ma che doveva sembrare, a dodici anni, senza treccia dorata sulla schiena e senza altri segni evidenti di femminilità?

Ogni spiegazione peggiorava solo la situazione. A volte la madre alzava persino la mano. Per fortuna non arrivò mai a colpirla. In mezzo a tutto, Yulia imparò a sentire più affetto per la nonna che per la madre.

Fu proprio dalla nonna che si trasferì quando entrò all’università con una borsa di studio. La madre le aveva detto chiaramente che non avrebbe mantenuto “una cavalla adulta”, e che ormai non era più obbligata per legge.

Quella frase fece infuriare la nonna, che telefonò a qualcuno, parlò a lungo, e poi disse a Yulia di andare all’ufficio tutela minori per firmare alcuni documenti. Lì Yulia scoprì che il padre aveva sempre pagato regolarmente un assegno di mantenimento piuttosto generoso. Ed era venuto apposta in città per fare in modo che da quel momento i soldi arrivassero direttamente a lei, ormai maggiorenne e con un proprio conto.

Scoprì anche che i genitori hanno l’obbligo legale di mantenere i figli finché studiano. E che l’assegno del padre era tutt’altro che una miseria, come sosteneva la madre: era più alto dello stipendio medio della città.

Con il padre non riuscì ad avere un rapporto: lui fu onesto, disse che non l’amava e che mandava i soldi solo perché era un dovere. Nessuna bugia, nessuna frase del tipo “lo faccio per il tuo bene”. Solo la verità.

Due settimane dopo, la madre si presentò alla porta della nonna, infuriata:

— Come hai potuto? Hai rubato a tua madre! Hai derubato tuo fratello!

Fratello che, per la cronaca, aveva già sedici anni. Yulia non disse nulla. Aveva capito che discutere era inutile.

La nonna, invece, parlò eccome. Fece rientrare Yulia in casa e uscì lei a confrontarsi con la figlia nel pianerottolo. I vicini si ricordarono in fretta che la nonna, ai tempi dell’URSS, era stata capo reparto in una fabbrica: il suo vocabolario era ampio, colorito e inarrestabile.

La madre, forse per la prima volta, rimase davvero colpita. Non cercò più di contattare Yulia per tutta la durata degli studi. Continuava però a frequentare l’università — per risolvere i guai di Slava.

— Ma non è tuo fratello, quello? — le chiese un giorno la professoressa responsabile della tesi.

— Non ci parliamo. Vivo con mia nonna da quando ho finito la scuola — rispose Yulia, evitando i dettagli. Meglio la verità semplice che le mezze bugie.

— Ah… Scusami — si affrettò a dire la professoressa, cambiando subito argomento.

Col tempo, e grazie alla nonna, le ferite si rimarginarono. Rimase il ricordo, ma anche una lucidità nuova: se la madre avesse trattato Yulia come faceva con Slava, forse lei sarebbe cresciuta altrettanto immatura e incapace. Invece…

Aveva avuto una nonna amorevole. Un padre che almeno mandava soldi. C’erano ragazzi cresciuti con meno. Bisognava andare avanti.

Il passato, però, tornò nel momento peggiore. La nonna morì poco dopo che Yulia prese il diploma e trovò lavoro. Un parente disse che sembrava avesse resistito solo per vedere Yulia sistemata. Morì nel sonno, come desiderava. Senza dolore.

A rovinare il funerale fu, ancora una volta, la madre. Mezzo ubriaca, annunciò davanti a tutti che avrebbe trasferito Slava nell’appartamento della madre defunta:

— Ormai è grande, vuole portare ragazze, amici… e nella nostra casa non c’è spazio.

— E Yulia dove dovrebbe andare? — chiese qualcuno.

— Con me, ovvio. Fino a che non si sposa, può stare da me.

— Peccato che la nonna la pensasse diversamente — disse forte Yulia. — Ha lasciato la casa a me. C’è un testamento. È mia. Quindi scordatelo. E abbi almeno il decoro di ricordare tua madre invece di parlare di proprietà.

Gli ospiti approvarono a bassa voce. Una delle amiche della nonna si avvicinò alla madre e le sussurrò qualcosa all’orecchio. La madre diventò paonazza e se ne andò coprendosi la gonna con le mani.

— Zia Vika, che le hai detto? — chiese piano Yulia.

— Le ho fatto notare che ha una grossa macchia marrone dietro… che, diciamolo, sembra tutt’altro. Magari poi capirà che era solo caviale di zucchine, ma intanto dovrà attraversare mezza città in gonna bianca con quella chiazza lì. E la gente non sa cos’è — rispose con filosofia.

— Forse non avrei dovuto invitarla…

— No, non avresti dovuto. Tua nonna non l’avrebbe voluta al suo funerale.

Yulia era d’accordo. Ma almeno sapeva che, per un bel po’, la madre non si sarebbe più fatta vedere.

Oh, quanto si sbagliava.

Fino al momento in cui Yulia entrò ufficialmente in possesso dell’eredità, la madre tentò in tutti i modi di convincerla: parlava di equità, di due nipoti, cercava di farla sentire in colpa, le proponeva di dividere l’appartamento, di tornare a vivere con lei.

Tutto inutile.

— Allora io lascerò il mio appartamento a mio figlio! — sbottò infine.

— Ma fai pure — replicò Yulia, senza battere ciglio.

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