«Chi sei e cosa fai sulla tomba di mio figlio?» chiese Margarete Ferreira fissando la giovane donna che abbracciava un bambino. La risposta che avrebbe ricevuto avrebbe distrutto tutto ciò che aveva sempre creduto sulla sua famiglia.
Il cielo era grigio e nuvoloso quella mattina quando Margarete Ferreira oltrepassò le cancellate del cimitero Jardim da Paz, un luogo che conosceva fin troppo bene. Ogni pietra dell’avenue era incisa nella sua memoria come cicatrici che non avrebbero mai guarito. Ogni giorno, senza eccezioni, si recava a pregare sulla tomba di Gabriel, suo unico figlio, portando fiori freschi e trascorrendo ore a parlare alla pietra di marmo, come se potesse ancora sentirla.
Margarete era una donna che ispirava rispetto ovunque si recasse. Dirigeva Ferreira & Associados, una delle più grandi aziende di costruzione della regione, con mano ferma dal momento in cui era diventata vedova. Il suo abito impeccabile e la sua postura eretta manifestavano il controllo assoluto che esercitava su ogni aspetto della sua vita – almeno, così credeva.
Ma quella mattina, qualcosa era diverso. Mentre si avvicinava alla tomba di Gabriel, il suo passo rallentò. C’era qualcuno.
Una giovane donna era inginocchiata davanti alla pietra, tenendo in braccio una piccola bambina e piangendo silenziosamente. Il bouquet di semplici margherite che aveva deposto appariva in forte contrasto con le rosse costose che Margarete portava sempre.
«Chi sei?» chiese Margarete, la voce affilata come una lama. «Cosa fai sulla tomba di mio figlio?»
La giovane donna si voltò, spaventata, asciugandosi rapidamente le lacrime. Era una ragazza semplice, doveva avere appena venticinque anni, il viso segnato da notti insonni e occhi che sembravano trasportare più dolore di quanto chiunque di così giovane avrebbe mai dovuto sopportare.
La bambina tra le sue braccia, una piccola bionda, guardava Margarete con quegli occhi grandi e curiose, tipici dei bambini che stanno scoprendo il mondo.
«Io… mi dispiace», mormorò Júlia Santos mentre si alzava con difficoltà, mantenendo la piccola sulla fianchi. «Non volevo disturbare, stavo per andare via.»
«Aspetta», ordinò Margarete, bloccandole il passo. «Non hai risposto alla mia domanda. Come conoscevi mio figlio?»
Júlia inghiottì a fatica, stringendo la bambina contro il suo petto come se cercasse protezione. La piccola iniziò a chiacchierare, allungando le manine per toccare il volto della madre.
«Gabriel era… importante per me», rispose Júlia piano, incapace di sostenere lo sguardo ferreo di Margarete.
«Importante?» ripeté Margarete, alzando il tono. «Mio figlio è morto quasi due anni fa e non ti ho mai vista al suo funerale. Non ho mai sentito parlare di nessuna Júlia. Chi credi di essere a venir qui a finger di aver avuto una qualsiasi relazione con lui?»
L’accusa colpì Júlia come uno schiaffo. Sentì le lacrime tornare, ma questa volta non cercò di nasconderle.
«Non ero al funerale perché tu eri stata molto chiara: non ero la benvenuta nella vita di tuo figlio», rispose, la voce tremante ma sorprendentemente ferma. «Hai fatto sì che io sparissi e ci sei riuscita.»
Margarete impallidì. C’era qualcosa nella voce di questa giovane donna, un dolore autentico che non si poteva simulare. E quegli occhi… per un attimo, le parve di riconoscere qualcosa di familiare in quel viso.
«Di cosa parli?» domandò Margarete, ma ora la sua voce aveva perso l’arroganza iniziale.
«Gabriel ed io ci siamo incontrati qualche anno fa», iniziò Júlia, sedendosi su una panchina vicina, poiché le sue gambe non la sostenevano più. La bambina si rannicchiò sulle sue ginocchia, succhiandosi il dito.
«Faceva volontariato nella comunità in cui abitavo. Io studiavo di sera e lavoravo durante il giorno in una lavanderia. Gabriel era diverso da tutte le persone che avevo incontrato.»
Margarete sentì il cuore stringersi. Effettivamente, Gabriel aveva svolto attività di volontariato, cosa che lei aveva sempre considerato una perdita di tempo.
«Dovresti concentrarti sugli affari di famiglia», gli diceva. Ma suo figlio insisteva: voleva aiutare chi aveva veramente bisogno.
Inserto chiave: «Continua», ordinò Margarete, sedendosi a sua volta sulla panchina, mantenendo una certa distanza.
«Iniziammo a parlare dopo le lezioni che regalava a degli adulti che volevano imparare a leggere e a scrivere», continuò Júlia, fissando la lapide di Gabriel come se parlasse direttamente con lui. «Era così gentile, così diverso. Non mi ha mai fatto sentire inferiore perché ero povera, perché non avevo frequentato scuole prestigiose, perché vivevo in una piccola casa di due stanze.»
«E voi vi siete… coinvolti?» concluse più che chiese Margarete, lasciando trasparire cosa pensasse di tutto ciò.
«Ci siamo innamorati», la corresse Júlia, alzando il mento con dignità. «Gabriel diceva che ero la persona più autentica che avesse mai conosciuto, che non volevo nulla da lui, se non la sua presenza, che lo amavo per quello che era, non per il nome che portava.»
Margarete sentì la rabbia crescere in petto. Come osava quell’estranea rivendicare l’amore di suo figlio? Gabriel non le aveva mai parlato di una relazione seria. O forse… lo aveva fatto e lei aveva semplicemente scelto di non ascoltarlo?
«Bugie», sputò Margarete.
Ma la sua voce non aveva più la determinazione che desiderava.
«Se fossi stata così innamorata, perché non ti ho mai vista? Perché mio figlio non ti ha mai portata qui, a casa nostra?»
La domanda rimase sospesa nell’aria come un’accusa.
Júlia strinse la sua bambina più forte prima di rispondere.
«Perché ha provato», disse. «E tu lo hai impedito. Più di una volta. Gabriel mi ha portata fino a davanti casa tua più volte, o ha cercato di farlo. Ogni volta, ordinavi ai guardiani di non farmi entrare.»
Margarete si alzò di scatto.
«È assurdo. Non ho mai…»
Ma si interruppe. I ricordi iniziarono a riaffiorare: frammenti di conversazioni che aveva ignorato, pezzi di una realtà che si era rifiutata di vedere con una tale ostinazione da autoconvincersi che non esistesse.
«C’era una ragazza», mormorò, più per se stessa che per Júlia. «Anni fa, Gabriel insisteva per portare qualcuno a cena. Ho rifiutato, ho detto che non era il momento, che la famiglia stava attraversando un periodo delicato in affari…»
«Non è successo solo una volta», disse dolcemente Júlia. «È successo diciassette volte. Le ho contate. Diciassette volte in cui Gabriel organizzò cene, incontri, persino un semplice caffè. Ogni volta, avevi una scusa. E tre volte in cui sono effettivamente arrivata davanti a casa tua, i guardiani mi hanno fermato al cancello perché non ero sulla lista degli invitati autorizzati.»
Il silenzio che seguì era così pesante che sembrava aspirare l’aria attorno a loro.
Margarete si riunì. Le sue gambe erano improvvisamente diventate molto deboli.
Si ricordava. Dio mio, si ricordava di tutto.
Le discussioni con Gabriel quando lui la implorava di dare una possibilità a quella ragazza, e lei che rifiutava categoricamente di incontrare «chiunque» suo figlio volesse presentarle.
«Ho fatto delle ricerche su di te», ammise Margarete, la voce rauca. «Quando insisteva troppo, ho fatto chiamare il mio assistente per scoprire chi fossi. Quando ho saputo che eri una ragazza della comunità, senza una famiglia stabile, senza istruzione, senza… prospettive, ho vietato a Gabriel di continuare a vederti.»
«E lui obbedì», disse Júlia. Queste tre parole contenevano così tanto dolore che Margarete si sentì trafitta.
«Mio figlio era obbediente», cercò di giustificarsi Margarete. «Comprendeva le responsabilità che aveva verso la famiglia, verso l’azienda.»
«Ti amava», la interruppe Júlia. «Ti amava così tanto che ha scelto di obbedirti anche se questo distruggeva la sua felicità, anche se significava lasciarmi nel momento in cui avevo più bisogno di lui.»
La piccola tra le braccia di Júlia cominciò a muoversi, sentendo la tensione della madre. Iniziò a chiacchierare più forte e a battere le mani sul viso di Júlia, come fanno i bambini piccolissimi quando vogliono attirare l’attenzione.
«Amore mio…», mormorò Júlia baciandole la fronte. «Va tutto bene.»
Fu in quel momento che Margarete guardò davvero l’infante. La osservò realmente, e ciò che vide le tolse il respiro.
Quegli occhi, la forma di quel viso, il modo in cui la piccola inclinava la testa ogni qual volta era curiosa.
Era Gabriel.
Era il Gabriel bambino, nelle foto che custodiva negli album che non aveva avuto il coraggio di aprire dopo la sua morte.
«Quanti anni ha?» chiese Margarete con una voce quasi spenta.
Júlia strinse la sua bambina a sé, come se temesse che Margarete le la potesse strappare.
«Presto compirà due anni.»
«Due anni?» ripeté Margarete, facendo rapidamente il calcolo.
Gabriel era morto un anno e dieci mesi prima.
«Un anno, dieci mesi e tredici giorni», corresse Júlia, dimostrando che contava ogni giorno da quando aveva perso l’uomo che amava.
«È sua figlia», affermò Margarete. Non era una domanda. Ne era sicura. Vedeva Gabriel in ogni tratto dell’infante.
«Alice», disse dolcemente Júlia. «Si chiama Alice. Gabriel diceva sempre che se avesse avuto una figlia, avrebbe voluto chiamarla così a causa della storia ‘Alice nel paese delle meraviglie’, perché pensava che il mondo fosse pieno di meraviglie che le persone smettono di vedere crescendo.»
Margarete sentì qualcosa spezzarsi dentro di sé.
Gabriel aveva avuto una figlia. Lei aveva una nipote, e da quasi due anni non ne sapeva nulla.
«Perché non me l’hai mai detto?» chiese con fermezza. La sua voce stava tornando dura, perché aveva bisogno di scaricare la colpa su qualcuno. «Perché Gabriel non mi ha mai detto che sarebbe diventato padre?»
«Perché non lo sapeva», rispose Júlia.
E queste quattro parole non avrebbero mai dovuto esistere nella stessa frase.
«Cosa intendi, non lo sapeva?»
«Quando ho scoperto di essere incinta, sono andata a cercarlo», spiegò Júlia, asciugandosi le lacrime che non smettevano di scorrere. «Sono andata all’ufficio in cui lavorava. Sono riuscita a passare il portiere, sono salita fino al suo piano, ma prima che potessi vederlo… sei apparsa tu.
Un brivido percorse la schiena di Margarete. Si ricordava anche di quel giorno. Una ragazza era riuscita a eludere la sicurezza e stava cercando di parlare con Gabriel. Margarete era intervenuta di persona.
«Hai ordinato di farmi uscire dall’edificio», continuò Júlia, la voce spezzata, «davanti a tutti. Mi hai accusato di essere un’arrivista che non sapeva rispettare il proprio posto e hai detto che se fossi tornata, avresti chiamato la polizia per molestie.»
«Stavo proteggendo mio figlio», protestò Margarete.
Ma questa scusa suonò vuota anche alle sue orecchie.
«In realtà, stavi distruggendo la sua vita», replicò Júlia, e per la prima volta la sua voce rivelava rabbia. «Non mi hai lasciato parlargli del bambino. Non gli hai permesso di sapere che sarebbe diventato padre. Gli hai rubato la possibilità di scegliere.»
«Avrebbe potuto venire a prenderti personalmente», protestò Margarete, disperata all’idea di non essere l’unica colpevole.
«Non sapeva che avevo provato a vederlo», spiegò Júlia. «Ho pensato che magari tu gli avessi detto qualcosa, ma poi ho capito che non era così. Ho mandato lettere all’azienda, ma immagino che non gli siano mai arrivate. Ho provato a chiamare, ma il mio numero era bloccato e non avevo soldi per continuare a ricontattare. Avevo a malapena di cosa mangiare.»
Alice cominciò a lamentarsi, percependo l’emozione della madre. Júlia baciò instintivamente la bambina, mormorando quei suoni dolci che le madri usano per tranquillizzare i propri piccoli.
«Quando Alice è nata, ho pensato di riprovare», continuò Júlia, la voce più dolce mentre accarezzava sua figlia. «Ma poi… poi c’è stato l’incidente.»
«L’incidente…»
Margarete chiuse gli occhi, ricordando quel terribile giorno. Gabriel tornava tardi da un evento aziendale quando perse il controllo dell’auto. Gli investigatori dissero che non stava guidando troppo veloce, che non aveva bevuto, che era stato un tragico incidente, ma Margarete aveva sempre avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di più.
Da un certo periodo, Gabriel era depresso, distante, come se avesse perso qualcosa di importante che non riusciva più a ritrovare. Ora capiva.
Aveva perso Júlia, la possibilità di essere padre, e non lo aveva mai saputo.
«Come hai appreso dell’incidente?» chiese Margarete.
«L’ho visto al telegiornale», rispose Júlia, stringendo Alice al petto. «La notizia era ovunque: ‘L’erede di Ferreira & Associados muore in un tragico incidente’. Sono andata al funerale, sono rimasta in fondo. Sei passata più volte davanti a me senza nemmeno riconoscermi.»
Margarete provò a ricordare. Ma quel giorno era solo una grande nebbia di dolore e sedativi. C’erano così tante persone, così tanti volti sconosciuti che le porgevano condoglianze vuote.
«Perché vieni qui?» chiese Margarete guardando le semplici margherite che Júlia aveva portato. «Perché continui a visitare la sua tomba?»
«Perché, anche se hai fatto di tutto per separarci, anche se Gabriel non ha mai conosciuto sua figlia, l’ho amato comunque», disse Júlia, guardandola dritta negli occhi. «E Alice merita di conoscere suo padre, anche se solo attraverso storie e queste visite qui.»
Margarete osservò la nipote di cui non sapeva nemmeno di aver bisogno.
Alice aveva smesso di piangere e ora fissava Margarete con i suoi grandi occhi curiosi. Improvvisamente, la bambina tendette la mano verso di lei, con quel gesto universale dei piccoli che vogliono essere presi.
«Non lo fa mai con gli estranei», disse Júlia, sorpresa. «È molto timida con le persone che non conosce.»
Margarete guardò quella piccola mano tesa, quegli occhi così simili a quelli di Gabriel bambino.
Il suo primo istinto fu quello di indietreggiare, mantenere le distanze, proteggersi dal dolore di una nuova possibile perdita. Ma qualcosa cedette dentro di lei.
Lentamente, tendette la mano e sfiorò le dita minuscole di Alice.
La piccola chiuse le palme attorno al suo dito con una sorprendente forza e le promise un sorriso.
Un sorriso da latte che, in un attimo, la spezzò e la ricostruì.
«Ha i suoi occhi?» mormorò Margarete.
«Sì», confermò Júlia. «Ha i suoi occhi, il suo sorriso e il suo modo di inclinare la testa quando è curiosa.»
Frase chiave: «Ho distrutto tutto», ammise all’improvviso Margarete, le parole le uscirono dalle labbra prima che potesse trattenerle. «Ho distrutto la felicità di mio figlio perché pensavo di sapere ciò che era meglio per lui. Pensavo di proteggerlo, di preservare il nostro patrimonio familiare, ma ho solo allontanato l’unica cosa che contava davvero.
Júlia non rispose. Non c’era nulla da aggiungere. Margarete aveva ragione e lo sapevano entrambe.
«Ti parlava di me?» chiese Júlia dopo un lungo silenzio. «Dopo che tu… dopo che lo hai costretto a lasciarmi?»
Margarete esitò a mentire, a risparmiarle la verità, ma dopo tanti inganni e omissioni, la verità era forse l’unica cosa che poteva iniziare a riparare ciò che aveva distrutto.
«Era cambiato», ammise. «Era diventato più chiuso. Si era dedicato al lavoro in modo ossessivo, come se volesse colmare un vuoto. Aveva smesso di fare volontariato, aveva smesso di sorridere come prima. Credevo che fosse finalmente maturo, che stesse diventando l’uomo di cui l’azienda aveva bisogno. Ora capisco che stava solo sopravvivendo».
Le parole rimasero sospese tra loro, cariche di tutto il dolore e di rimpianti che Margarete si era rifiutata di affrontare fino a quel momento.
Alice si mise a sbadigliare, strofinandosi gli occhi con i pugni, come fanno i bambini quando la stanchezza li sopraffà. Júlia guardò sua figlia e poi il cielo, giudicando l’ora dalla posizione del sole.
«Devo andare», disse alzandosi con Alice tra le braccia. «Lavoro questo pomeriggio e devo lasciarla dalla vicina che si prende cura di lei.»
«Dove lavori?» chiese Margarete, all’improvviso avidissima di sapere tutto della vita che il suo pregiudizio aveva contribuito a distruggere.
«Nella stessa lavanderia di prima», rispose Júlia. «Faccio doppie turni quando è possibile. I soldi a malapena bastano per l’affitto e il cibo, ma la proprietaria mi lascia portare Alice quando non ho nessuno che se ne occupi.»
Margarete la osservò davvero per la prima volta: vide gli abiti usurati ma puliti, le scarpe rattoppate, la vecchia borsa probabilmente piena di pannolini e biscotti per Alice.
Vide una giovane madre che lottava da sola per crescere sua figlia, facendo del suo meglio con quasi nulla che avesse. E in lei, vide Gabriel, non fisicamente, ma nel pensiero: nella determinazione di andare avanti quando tutto sembrava impossibile, nella dignità di un lavoro onesto, anche il più umile, nella forza di amare senza condizioni, anche quando l’amore aveva portato solo dolore.
«Júlia», la chiamò Margarete mentre la giovane si allontanava già. «Non andare via subito.»
Júlia si fermò e si girò lentamente. C’era diffidenza nei suoi occhi. La diffidenza di chi ha imparato che le persone potenti non portano mai buone notizie a chi non ne ha.
«Devo… riparare», disse Margarete. Per la prima volta in anni, la sua voce sembrava vulnerabile. «Non so come, ma devo rimettere in ordine ciò che ho distrutto.»
«Non puoi riportare Gabriel», disse semplicemente Júlia.
«No», ammise Margarete. «Ma posso… posso fare qualcosa per te, per Alice, per la mia nipotina.»
La parola le sembrò strana in bocca. Petite-fille. Aveva una nipotina che era cresciuta senza conoscerla, senza il comfort e le opportunità che una nipotina di Margarete Ferreira avrebbe dovuto avere.
«Non voglio elemosina», disse Júlia, alzando il mento con la stessa dignità di prima.
«Non ti offro carità», rispose Margarete. «Ti offro una possibilità: che possiamo tutte e due conoscere Alice così come Gabriel avrebbe voluto.»
Insieme.
Júlia guardò la donna che le aveva distrutto la vita, che l’aveva separata dall’uomo che amava, che aveva impedito a Gabriel di conoscere sua figlia. Aveva mille motivi per rifiutare, per prendere Alice e scomparire per sempre dalla vita di Margarete.
Ma posò lo sguardo sulla tomba di Gabriel e si ricordò di tutte le volte in cui lui le aveva parlato di sua madre, della sua durezza, ma anche di quello che credeva fosse il suo profondo amore, della sua speranza che un giorno comprendesse che l’amore non ha nulla a che vedere con il controllo, ma con l’accettazione delle persone così come sono.
«Non mi fido di te», disse Júlia onestamente.
«Lo so», rispose Margarete. «E dovrò dimostrarti che sono cambiata. Ma ti prego, non togliermi la possibilità di conoscere la mia nipotina. Non lasciare che i miei errori privino Alice del diritto di conoscere questa parte della sua famiglia.»
Alice scelse quel momento per tendere nuovamente la mano verso Margarete, emettendo suoni piccoli che sembravano chiederle di prenderla tra le braccia.
Júlia guardò sua figlia, quegli occhi così simili a quelli di Gabriel, e capì che non poteva negare ad Alice ciò che Gabriel non aveva mai avuto: una scelta.
«Un solo incontro», disse infine. «In un luogo pubblico. E se sento che cerchi di prendere Alice o di fare qualsiasi cosa che mi sembri minacciosa, svanirò e non ci troverai mai più.»
«Accetto le tue condizioni», disse Margarete con sincerità. «Dove e quando vuoi.»
Júlia rifletté un attimo.
«Conosci quel posto vicino alla comunità dove Gabriel faceva volontariato?»
Margarete annuì. Conosceva il luogo. Non c’era mai stata: aveva sempre considerato quel quartiere come una zona da evitare, ma sapeva dove si trovava.
«Là, dopodomani, nel pomeriggio, quando avrò finito di lavorare in lavanderia. Verrò.»
«Ci sarò anch’io», promise Margarete.
Júlia annuì e si allontanò. Dopo pochi passi, si voltò:
«Signora Margarete?»
«Sì?»
«Alice merita di meglio di quello che noi abbiamo avuto. Merita una vita in cui non deve scegliere tra amore e sicurezza, tra famiglia e dignità. Se vuoi davvero riparare, inizia da lì.»
Con queste parole, Júlia se ne andò, attraversando i viali con Alice tra le braccia, lasciando Margarete sola con la tomba di suo figlio e il peso di tutte le cattive decisioni che aveva preso.
Margarete si avvicinò alla pietra e sfiorò il marmo freddo con le dita tremanti. «Gabriel», mormorò. «Perdonami. Perdonami per tutto.»
Ma Gabriel non poteva rispondere. Non potrebbe mai più.
E Margarete dovette vivere sapendo che le sue azioni avevano distrutto la felicità di suo figlio, privandolo della possibilità di conoscere sua figlia, trasformando i suoi ultimi anni in un’esistenza vuota e senza senso.
Guardò le semplici margherite lasciate da Júlia, così diverse dalle rosse costose che portava, e capì che quei fiori modesti contenevano più vero amore di tutte le sue dimostrazioni ostentate di lutto.
Margarete Ferreira, la potente donna d’affari che aveva sempre saputo esattamente cosa fare in ogni situazione, che aveva costruito un impero grazie a decisioni ferme e controllo assoluto, si trovava ora di fronte a qualcosa che non poteva controllare: le conseguenze dei suoi stessi pregiudizi.
E queste conseguenze avevano due anni, grandi occhi identici a quelli di Gabriel e una madre che amava lei più di quanto Margarete non avesse mai permesso che qualcuno amasse suo figlio.
La domanda ora era: sarebbe stato troppo tardi per cambiare? Troppo tardi per imparare ad amare senza controllare? Accettare senza giudicare? Essere la nonna che Alice meritava, invece della donna che aveva distrutto la felicità di Gabriel?
Margarete alzò gli sguardi verso il cielo coperto e sentì le prime gocce di pioggia cadere. Era come se anche il cielo piangesse per le scelte che aveva fatto, per le vite che aveva spezzato per arroganza.
Ma nel cuore di quel dolore, nel mezzo di questo rimorso che minacciava di soffocarla, c’era un piccolo seme di speranza. Júlia aveva accettato di rivederla. Le aveva dato una possibilità che Margarete non meritava.
Ora aveva due giorni per scoprire come diventare la persona che sua nipote meritava di conoscere. Due giorni per iniziare a riparare anni di danni. Due giorni per imparare che il vero amore non ha nulla a che vedere con il potere, il denaro o il controllo.
Ha tutto a che vedere con l’accettazione.
E Margarete doveva impararlo nel modo più difficile.
Margarete non dormì quella notte, né la successiva. Rimase distesa nel letto king-size della sua camera vuota, con gli occhi fissi al soffitto, mentre la sua mente ripeteva tutto ciò che aveva scoperto. Gabriel aveva avuto una figlia, lei aveva una nipote e, per quasi due anni, quella bambina era cresciuta nella povertà mentre Margarete dormiva su cuscini di piume e sprecava denaro in cose senza importanza.
All’alba, il giorno dell’incontro, era seduta nel soggiorno, circondata da album fotografici che non aveva aperto dai funerali di Gabriel. C’erano foto di lui da bambino, da ragazzo, e in ognuna di esse vedeva Alice. La stessa forma degli occhi, la stessa modalità di sorridere, persino la piccola fossetta nel mento che appariva quando era felice.
«Come ho potuto non vedere?» mormorò alle foto. «Come ho potuto essere così cieca?»
Ma lo sapeva: aveva scelto di essere cieca. Aveva scelto di vedere solo ciò che rientrava nel suo mondo perfetto, dove suo figlio avrebbe sposato qualcuno dello stesso ceto, avrebbe avuto figli che sarebbero andati nelle migliori scuole e avrebbe preso le redini dell’impero Ferreira senza complicazioni o scandali.
Teresa Oliveira, governante presso i Ferreira da oltre vent’anni, entrò nel soggiorno con un vassoio di caffè e pane. «Non mangi da due giorni», disse lei, preoccupata, conoscendo troppo bene la patrona. «Devi nutrirti.»
«Non ho fame, Teresa.»
«Signora Margarete, con tutto il rispetto, sembri un fantasma. Cosa è successo?»
Margarete guardò Teresa, la donna che aveva cresciuto Gabriel al suo fianco dopo la morte di suo marito. Teresa, che aveva consolato il bambino quando piangeva in segreto dopo le loro litigate su come dovesse vivere. Teresa, che sapeva più di Gabriel di quanto avesse voluto ammettere.
«Teresa», disse Margarete, con la voce spezzata. «Gabriel aveva una figlia.»
Il vassoio quasi le scivolò dalle mani.
«Cosa?»
«Una piccola. Alice. Presto compirà due anni. E io… io ho distrutto tutto. Ho allontanato sua madre, ho impedito a Gabriel di sapere. E ora…»
Teresa pose il vassoio sul tavolo e si sedette vicino a Margarete, cosa che non si sarebbe mai permessa normalmente, ma quel momento non aveva nulla di normale.
«Dimmi tutto», chiese.
Margarete raccontò. Ogni parola, ogni rivelazione dolorosa, ogni istante al cimitero che aveva frantumato la sua realtà.
Quando terminò, piangeva, il che non le accadeva dal funerale di Gabriel.
«Dio mio», mormorò Teresa, asciugandosi le lacrime. «Questa bambina… il signor Gabriel era padre, e non lo ha mai saputo.»
«A causa mia», disse Margarete. «Unicamente a causa mia.»
«E ora? Che intendi fare?»
«Oggi andrò a trovarle. Júlia e Alice. In un posto vicino alla comunità. Ma Teresa, non so cosa fare. Non so come riparare anni di danni. Non so come guardare quella bambina senza vedere tutto ciò che le ho portato via.»
Teresa le prese le mani. «Inizia a dire la verità. Inizia a riconoscere i tuoi errori. E inizia ad aiutarli realmente, senza cercare di controllare tutto.»
«Cosa significa?»
«Hai la tendenza a voler controllare tutto e tutti. L’hai fatto con Gabriel per tutta la vita. Non puoi fare altrettanto con questa bambina. Se vuoi veramente riparare, devi rispettare la madre, rispettare le sue decisioni e essere presente senza cercare di dominare.»
Le parole furono dure, perché erano vere. Margarete sapeva che il suo bisogno di controllo era stato il suo più grande difetto, quello che le era costato la felicità di suo figlio.
«Non so se posso cambiare», ammise.
«Allora impara», rispose Teresa con fermezza. «Perché se non cambi, perderai anche questa nipote, e non potrai dare la colpa che a te stessa.»
Alcune ore dopo, Margarete si trovava davanti al suo guardaroba, incapace di decidere cosa indossare. Tutto ciò che possedeva sembrava troppo costoso, troppo formale, urlando ricchezza e distanza.
Alla fine, optò per un completo semplice, senza gioielli appariscenti, cercando di sembrare meno intimidatoria.
Quando arrivò nella piazza, quindici minuti prima dell’ora stabilita, rimase sorpresa. Il luogo era molto diverso da come lo aveva immaginato. Non era così pericoloso come aveva sempre temuto, ma modesto in un modo che non aveva mai conosciuto.
I bambini correvano a piedi nudi mentre le madri chiacchieravano sulle panchine. C’era un piccolo campo improvvisato dove ragazzi giocavano a calcio, un parco con giochi arrugginiti ma curati.
Ed eccola là, mentre spingeva Alice su un’altalena vecchia, c’era Júlia.
Margarete si avvicinò lentamente, osservando. Júlia indossava gli stessi vestiti semplici della giornata precedente al cimitero, ma sembrava diversa. Sorrideva mentre spingeva sua figlia, canticchiando una melodia.
Alice rideva, una risata chiara, allungando le gambe ogni volta che l’altalena avanzava.
«Più in alto, mamma!» diceva la piccola.
«Non troppo in alto, amore mio, altrimenti volerai via da me», rispondeva Júlia baciandola sulla testa.
È in quel momento che Alice avvistò Margarete.
I suoi occhi si allargarono e emise piccoli gridi entusiasti indicandola con il dito.
«Guarda, mamma, la signora del cimitero!»
Júlia si girò e il suo sorriso svanì, sostituito da un’espressione cauta.
«Buongiorno, signora Margarete.»
«Buongiorno», rispose Margarete, senza sapere cosa fare delle sue mani. «Sono arrivata un po’ in anticipo. Spero non sia un problema.»
«Non è un problema», rispose Júlia, ma non si avvicinò.
Alice, invece, non aveva la stessa riserva della madre. Si dimenò sull’altalena, volendo scendere.
«Voglio scendere, mamma. Voglio andare dalla signora.»
Júlia la sciolse con cautela e Alice corse verso Margarete, con quei piccoli passi ancora incerti.
Giunta vicino a lei, si fermò e alzò lo sguardo verso il volto di Margarete.
«Buongiorno», disse timidamente, il dito in bocca.
«Buongiorno, Alice», rispose Margarete con la voce rotta.
«Conoscevi mio papà?» chiese improvvisamente la piccola, con quella franchezza disarmante che solo i bambini possiedono.
Le lacrime salirono agli occhi di Margarete.
«Sì», rispose, in un soffio. «Lo conoscevo. Era mio figlio.»
Alice rifletté un attimo, integrando l’informazione a modo suo.
«Quindi sei la mia mammina?»
Questa parola colpì Margarete come un fulmine. Mammina. Era una nonna. Aveva una nipote che la chiamava nonna. E per quasi due anni, questa bambina aveva ignorato l’esistenza di questo meraviglioso ruolo nella sua vita.
«Sì», riuscì a dire. «Sono la tua nonna.»
Alice sorrise. Un sorriso da latte che avrebbe fatto sciogliere qualunque cuore.
«Nonna bella.»
Margarete si inginocchiò lì, sull’erba, senza preoccuparsi di sporcare i suoi pantaloni eleganti. Voleva essere all’altezza di Alice e, per la prima volta in anni, pianse apertamente davanti a qualcuno.
«Perdonami», disse, senza sapere se si stesse rivolgendo a Alice, a Júlia o al fantasma di Gabriel, che sentiva quasi presente. «Perdonami, ti prego.»
Júlia si avvicinò e posò una mano sulla spalla della sua bambina.
«Dai, amore mio. Andiamo a sederci su quella panchina.»
Si sedettero su una panchina vicina. Alice era agitata, voleva esplorare la piazza, ma Júlia la teneva vicina a lei.
«Ha un’energia incredibile», spiegò Júlia. «Faccio fatica a starle dietro.»
«Gabriel era lo stesso», disse Margarete asciugandosi gli occhi. «Non stava mai fermo, era sempre in corsa, sempre a scoprire nuove cose.»
«Lo so», rispose dolcemente Júlia. «Mi raccontava storie della sua infanzia, di come ti preoccupassi quando saliva sugli alberi o si allontanava troppo.»
«Ho sempre temuto che gli accadesse qualcosa», ammise Margarete. «Specialmente dopo la morte di suo padre. Gabriel era tutto ciò che mi rimaneva e, per paura di perderlo, ero finita col perderlo nel modo peggiore possibile.»
Alice iniziò a canticchiare, dondolando le gambe. Tirò fuori dalla borsa di Júlia una vecchia bambola e iniziò a giocare, inventando una storia che solo lei comprendeva.
«Questa bambola era mia quando ero piccola», spiegò Júlia guardando sua figlia. «È l’unica che ha. Dorme stretta opposta a lei tutte le notti.»
Margarete osservò la bambola malandata, chiaramente vecchia, con il vestito rattoppato più volte.
In casa, nella camera che era stata di Gabriel, c’erano decine di giocattoli costosi che nessuno usava. Giocattoli con cui Alice avrebbe potuto giocare, se Margarete non fosse stata così crudele.
«Júlia», iniziò a dire, scegliendo le parole con attenzione. «So che ti devo più scuse di quante potrei offrirti in una vita, ma voglio che tu sappia che voglio cambiare. Voglio far parte della vita di Alice, se me lo permetti.»
«E che cosa significa esattamente?» chiese Júlia, diffidente. «Cosa intendi per “far parte”? Vuoi che lei viva con te? Decidere dove studierà, come si vestirà, che tipo di persona diventerà?»
Margarete si rese conto che stava navigando in un terreno scivoloso. Qualunque cosa dicesse avrebbe potuto essere interpretata come un tentativo di comprarsi un posto nella loro vita.
«Significa che voglio conoscerla. Voglio essere presente nella sua vita. Voglio aiutarvi», rispose dolcemente.
«E come possiamo essere aiutati?»
Margarete si rese conto di camminare su un terreno scivoloso. Qualunque cosa avesse detto potrà essere interpretata come un tentativo di acquistare su Birine nel suo stile di vita.
«Nella maniera che tu considererai appropriata», rispose con cautela. «Non voglio imporre nulla. Non voglio controllare nulla. Voglio semplicemente essere presente.»
Júlia rimase in silenzio a lungo, osservando Alice giocare.
«Sai perché sono venuta a vivere in questa comunità?» chiese finalmente.
Margarete scosse la testa.
«Perché non avevo nessuno», disse Júlia. «I miei genitori sono morti quando ero adolescente. Non ho né fratelli né sorelle, né zii né zie. Quando sono rimasta incinta, ero completamente sola. La proprietaria della lavanderia mi ha lasciato vivere in un piccolo ripostiglio dietro il negozio quando ha scoperto la mia situazione.»
«Dio…» mormorò Margarete.
«Alice è nata in quel ripostiglio», continuò Júlia, la voce carica di dolore. «Senza ospedale, senza medici, solo una vicina che sapeva un po’ e pregava affinché andasse tutto bene. Ho avuto fortuna. Molte donne nella mia situazione non ce l’hanno.»
Margarete si sentì male. Sua nipote era nata in condizioni che non avrebbe mai potuto nemmeno immaginare, mentre lei dormiva in lenzuola di cotone egiziano e si lamentava di problemi insignificanti.
«Durante il primo anno di vita di Alice, ho lavorato fino a non avere più forze», disse Júlia. «Facevo doppi turni, accettavo tutti i piccoli lavori possibili. Alcune notti non mangiavo per poterle comprare il latte. E sai cosa c’è di più ironico?»
«Cosa?»
«Non ti ho mai chiesto nulla», ribatté Júlia. «Non sono mai andata a bussare alla tua porta per chiedere aiuto. Non ho mai cercato di sfruttare Alice per ottenere denaro. Ho solo provato a sopravvivere e a crescere mia figlia con dignità.»
«Perché non sei venuta?» chiese Margarete. «Perché non sei venuta a cercarmi dopo la morte di Gabriel?»
Júlia la guardò dritto negli occhi.
«Perché tu eri già stata molto chiara: non ero la benvenuta nella tua famiglia e avevo la mia dignità. Se fossi andata a bussare alla porta, in qualche modo sarei stata una povera miserabile. Ma una dignità comunque. Non stavo per pregare un posto dove non mi volevano.»
«Avresti dovuto suplicare», disse Margarete, la voce carica di disperazione. «Avresti dovuto bussare alla mia porta ogni giorno finché non ti avrei ascoltato. Avresti dovuto gridare al mondo intero che Alice era la nipote di Gabriel Ferreira.»
«E tu mi avresti ascoltato?» ribatté Júlia. «O avresti ancora chiamato la sicurezza? Mi avresti accusata di voler approfittare della morte di Gabriel?»
Margarete non rispose, perché sapeva che Júlia aveva ragione. Se si fosse presentata subito dopo la morte di Gabriel, per dichiarare di avere una figlia sua, Margarete l’avrebbe sicuramente cacciata.
«Sono cambiata», disse, ma la frase suonò debole.
«Sei cambiata?» chiese Júlia. «O sei semplicemente piena di rimorsi ora che conosci la verità?»
«Entrambe le cose», ammise Margarete, scegliendo di essere onesta. «Sono piena di rimorsi. Ma ho anche capito che ho passato la mia vita a prendere decisioni basate su pregiudizi errati. Ti ho giudicata senza conoscerti. Ho disprezzato il tuo amore per Gabriel come se valesse meno perché non avevi soldi. Ho distrutto la felicità di mio figlio perché pensavo di sapere meglio di lui cosa fosse giusto per lui.»
Alice si alzò e corse verso un piccolo gruppo di bambini che giocavano a distanza. Júlia seguì lo sguardo, pronta a intervenire se necessario.
«Fa facilmente amicizia», osservò Margarete.
«Gabriel era lo stesso», rispose Júlia con un sorriso triste. «Mi raccontava che da piccolo portava sempre a casa amichetti. Tu ti preoccupavi perché alcuni venivano da famiglie più povere.»
Margarete se ne ricordava. Glielo aveva proibito: aveva imposto che Gabriel non frequentasse che bambini del suo ceto. Ancora una volta aveva cercato di controllare ogni aspetto della sua vita.
«Ho sbagliato su tutta la linea», disse. «E ora Gabriel non è più qui, e non posso chiedergli perdono. Ma posso provare a fare diversamente con Alice. Posso provare a essere la nonna che merita, non la persona orribile che sono stata come madre.»
«Diversamente come?» insistette Júlia. «Dici che vuoi aiutarci, ma cosa significa? Vuoi portarle via Alice? Dimostrare che sono una madre indegna perché sono povera? »
«No», rispose Margarete con fervore. «Non farò mai questo. Sei un’ottima madre. Alice è felice, è sana, è amata. Le hai dato tutto ciò che io non ho mai dato a Gabriel: un amore incondizionato.»
«E cosa vuoi?»
Margarete inspirò profondamente.
«Voglio fare parte della sua vita», disse. «Voglio vederla crescere. Voglio che sappia che ha una nonna che la ama, anche se ci ho messo troppo tempo a scoprirlo. E sì, voglio aiutarti finanziariamente, ma non per portarti via tua figlia o controllare le vostre vite. Affinché Alice abbia opportunità che tu non hai avuto, affinché tu non debba lavorare fino a non avere più forze, affinché voi siate al sicuro.»
«E se rifiuto?»
«Allora rispetterò la tua decisione», rispose Margarete, rendendosi conto che lo pensava davvero. «Ma ti supplico di non farlo. Non per me, per Alice. Merita di conoscere questa parte della sua famiglia. Merita di sentire parlare di suo padre da qualcuno che lo ha amato sin dal giorno della sua nascita.»
Júlia rimase in silenzio, osservando Alice che rideva e condivideva la sua vecchia bambola con gli altri bambini, generosa, anche avendo quasi nulla.
«Gabriel sarebbe fiero di lei», disse dolcemente Margarete.
«Lo so», rispose Júlia asciugandosi una lacrima. «Ogni giorno la guardo e vedo Gabriel nel suo modo di sorridere, nella sua volontà di aiutare gli altri, nel modo in cui trova bellezza nelle cose semplici.»
«Posso parlarti di Gabriel?» propose Margarete. «Di chi era da bambino, delle storie che magari non conosci?»
Júlia la guardò a lungo.
«Va bene.»
E così, sedute su quella vecchia panchina in una piazzetta modesta, Margarete iniziò a raccontare Gabriel: il suo primo giorno di scuola, come aveva pianto quando il suo pesce rosso era morto, come insisteva per dormire con una torcia accesa perché aveva paura del buio, come disegnava malissimo ma sempre con tanto amore.
Júlia ascoltò attentamente, ridendo a volte, piangendo in altri momenti. Margarete capì che tutto ciò era una forma di terapia per entrambe. Mantenere in vita il ricordo di Gabriel, permettergli di essere presente nonostante la sua assenza.
«C’è qualcosa che devo dirti», disse Júlia dopo un lungo silenzio. «Qualcosa che ho scoperto dopo la sua morte.»
«Cosa?»
«Gabriel mi cercava», rivelò, la voce tremante. «La notte dell’incidente, trovai lettere che non aveva mai inviato. Bozze di messaggi nel suo computer, a cui riuscii ad accedere. Aveva ingaggiato un detective privato per trovarmi.»
Margarete ebbe l’impressione di ricevere un pugno nello stomaco.
«Cosa?»
«Non ha mai smesso di pensare a me», continuò Júlia, lasciando scorrere le lacrime. «Mi cercava da mesi e, la notte in cui è morto, stava tornando da un appuntamento con il detective, che finalmente aveva trovato il mio indirizzo.
«Come lo sai?»
«Il detective mi ha trovata dopo il funerale», spiegò Júlia. «Mi ha detto che Gabriel aveva pagato tutto in anticipo e pensava che meritassi di conoscere la verità. Mi ha consegnato le lettere, i messaggi… tutto. Gabriel intendeva venire a bussare alla mia porta, chiedermi scusa per avermi lasciata, dirmi che non gli importava di quello che pensavi tu, che avrebbe scelto me. Speravo che questa lettera non arrivasse mai. Speravo di bussare alla tua porta prima di morire e stracciare questa busta davanti a te. Ma se dovessi leggerla, voglio che tu sappia che ti ho amato fino al mio ultimo respiro e che il mio rammarico più grande è di non aver lottato abbastanza per te. Sempre tua, Gabriel.
Margarete lesse la lettera per tre volte.
Gabriel sapeva. Sapeva per la gravidanza. Aveva ingaggiato un detective. Stava per andare da Júlia. Le aveva lasciato istruzioni chiare.
«Teresa», disse con voce improvvisamente ferma. «Chiama il Maître Henrique e annulla il test ADN.»
«Madame?»
«Non ne ho più bisogno. Ho tutto ciò di cui ho bisogno qui», disse stringendo la lettera. «Gabriel mi ha detto la verità e questa volta seguirò le indicazioni di mio figlio.»
«E la tua famiglia?» chiese Teresa.
«La mia famiglia comprenderà, o imparerà a comprendere», rispose Margarete. «Chiama anche Júlia. Dille che voglio vederla. Subito.»
Júlia arrivò due ore dopo, pronta a litigare, a respingere nuove pretese, pronta a sentire ancora che si dubitava della sua onestà. Ma trovò Margarete sola, seduta al suo tavolo, il viso sconvolto, con una busta ingiallita in mano.
«Siediti, ti prego», disse Margarete dolcemente.
Júlia si sedette, sulle difensive.
«Cosa è successo?»
«Abbiamo trovato delle lettere di Gabriel», spiegò Margarete porgendole una busta. «Lettere che ha scritto nel caso morisse prima di sistemare le questioni importanti. Questa è per te.»
Le mani tremanti, Júlia la aprì.
Júlia, amore mio, se leggi questo, è perché sono morto da vigliacco, perché non ho avuto il coraggio di affrontare mia madre, di lottare per noi, di essere l’uomo che meritavi. Ti cerco ogni giorno. Ho ingaggiato un detective, sto interrogando ovunque. Ti troverò. Ti chiederò scusa per averti lasciato, ti dirò che non mi importa di cosa pensa mia madre, che sceglierò te. Spero che questa lettera non arrivi mai a te. Spero di bussare alla tua porta prima di morire e strappare questa busta davanti a te. Ma se la leggi, voglio che tu sappia che ti ho amato fino al mio ultimo respiro e che il mio più grande rammarico è non aver lottato abbastanza per te. Sempre tuo, Gabriel.
Júlia finì di leggere, lacrime silenziose scendendo lungo le sue guance.
«Tornava davvero da me», mormorò.
«Sì», confermò Margarete. «E io l’ho ostacolato per troppo tempo. Ho distrutto la sua felicità per puro pregiudizio. Ma ora conosco la verità.»
«E ora?» chiese Júlia dolcemente.
«Ora farò ciò che Gabriel mi ha chiesto nella lettera che mi ha lasciato», rispose Margarete estraendo la sua lettera. «Mi ha chiesto di prendermi cura di te, di amarvi come una famiglia. E questo è esattamente ciò che farò.»
«E la tua famiglia? Il test ADN?»
«Ho annullato tutto», disse Margarete con determinazione. «Non ho bisogno di test. Ho la parola di Gabriel. Mi basta.
Júlia stava per rispondere quando la porta si aprì bruscamente. Clarice entrò come un uragano, seguita da Paulo, Sandra e Maître Henrique.
«Cosa hai fatto?» urlò Clarice. «Hai annullato il test? Sei completamente pazza?»
«Ho preso la mia decisione», rispose calmamente Margarete.
«Decisione?» ridacchiò Paulo senza umorismo. «Non puoi decidere di regalare milioni a un’estranea.
«Júlia non è un’estranea. È la donna che amava Gabriel. E Alice è mia nipote.»
«Provalo», gridò Sandra. «Provalo!»
«Non ho nulla da provare», ribatté Margarete. «Gabriel mi ha lasciato istruzioni chiare e io seguirò quelle.»
Maître Henrique posò un altro fascicolo sul tavolo.
«Margarete, ho preparato un’azione di interdizione. Se continuerai a comportarti in modo irrazionale, la famiglia potrà legalmente contestare la tua capacità di gestire il patrimonio.»
Il silenzio che aleggiò fu pesante.
Júlia guardò Margarete, aspettandosi di vederla cedere, scegliere la famiglia e l’azienda piuttosto che loro.
Ma Margarete sorprese tutti.
«Fate quello che volete», disse con calma. «Potete togliermi la direzione dell’azienda, mettere in dubbio la mia salute mentale, tentare di distruggermi giuridicamente, ma non mi impedirete di prendermi cura di mia nipote.»
«Stai rovinando tutto ciò che abbiamo costruito», urlò Clarice.
«No», corresse Margarete. «Sto riparando ciò che ho distrutto.»
«È follia», intervenne Paulo, ma la sua voce appariva incerte.
La porta si aprì di nuovo. Teresa entrò, tenendo Alice per mano. La piccola aveva insistito per vedere la sua nonna, e la governante non aveva avuto il cuore di rifiutare.
«Nonna!» esclamò Alice correndo verso Margarete, ignara della tensione.
Margarete la sollevò tra le braccia e la baciò.
«Buongiorno, amore mio.»
Alice guardò gli adulti, incuriosita.
«Perché tutti sono arrabbiati?»
«Nessuno è arrabbiato, tesoro mio», mentì Margarete.
«Sì, lo sono», ribatté la bambina con quell’eccentrica chiarezza dei più piccoli. «Ma non devi essere triste, nonna. Papà si prende cura di te.»
La stanza intera si gelò.
«Cosa hai detto?» chiese Margarete mettendosi a sua altezza.
«Papà», ripeté la piccola indicando il cielo. «Mamma dice che è in cielo. Si prende cura di noi. Ora si occupa anche di te, nonna.»
Le lacrime scorsero sul volto di Margarete. Non erano più solo lacrime di dolore, ma anche di qualcosa di più profondo: accettazione, redenzione.
Per la prima volta, Clarice sembrava veramente toccata. Guardò Alice, quella piccola innocente che parlava di Gabriel con tanta amore, e qualcosa si ruppe in lei.
«Ha davvero i suoi occhi», mormorò.
«Sì», confermò Margarete stringendo sempre Alice. «Ha i suoi occhi, il suo sorriso, il suo cuore.»
Paulo si lasciò cadere su una sedia.
«Avevamo torto», ammise.
«Sì», confermò Margarete, senza rabbia questa volta. «Ma anche io mi sono sbagliata per anni e ho distrutto la vita di mio figlio per questo.
Júlia, che era rimasta in silenzio fino a quel momento, alla fine disse:
«Alice, vieni con mamma. Lasciala parlare con la famiglia.»
«No», intervenne fermamente Margarete. «Rimanete. Anche voi fate parte della famiglia. È tempo che tutti lo comprendano.»
Se volete continuare a far parte della mia vita, dovrete accettare Júlia e Alice. Senza condizioni, senza test, senza giudizi. Solo l’accettazione.
E se non lo fate, continuerò avanti senza di voi. Perché ho già perso Gabriel scegliendo il potere invece dell’amore. Non farò lo stesso errore con Alice.
Clarice guardò a lungo la piccola. Alla fine, si avvicinò e si inginocchiò davanti a lei.
«Ciao, Alice. Sono zia-nonnina Clarice.»
«Sei di famiglia?» chiese la piccola piegando la testa.
«Sì», rispose Clarice, la voce tremante. «Sono di famiglia.»
«Allora non devi essere arrabbiata», disse Alice con la semplicità disarmante dei due anni. «La famiglia ama, non litiga.»
Con queste parole pronunciate da una bambina, le ultime resistenze si sgretolarono.
Qualche settimana dopo, Margarete, Júlia e Alice erano di ritorno al cimitero, davanti alla tomba di Gabriel. Ma questa volta, non c’era più solo quella soffocante tristezza: c’era pace.
«Papà, ti ho portato dei fiori», disse Alice deposta un piccolo bouquet di margherite sulla pietra. «E ho portato anche nonna e mamma.»
Margarete e Júlia si scambiarono uno sguardo carico di emozione mentre la bambina continuava a parlare al padre come se fosse lì.
«Nonna mi porta a mangiare gelati e mi ha comprato delle nuove bambole, ma io adoro ancora la vecchia b