La settimana scorsa, ho ricevuto una lettera scritta a mano su quella carta color avorio che mia nonna usava da sempre

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La settimana scorsa, ho ricevuto una lettera scritta a mano su quella carta color avorio che mia nonna usava da sempre. Solo che il contenuto non aveva nulla della sua dolcezza.

“NON VENIRMI PIÙ A TROVARE. HO CAMBIATO LE SERRATURE. NON SCRIVERE. NON CHIAMARE.”

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L’ho riletta almeno dieci volte. Nessun “tesoro”, nessun “con affetto”, nessuna firma. Solo fredda, secca, come tagliata con un coltello.

Sono rimasta seduta per ore sul divano con quella lettera in mano. Mia nonna mi ha cresciuta. Dopo che nostra madre è morta in un incidente stradale quando avevo 11 anni, è stata lei a prenderci tutte e tre — me, Emma e Sara — come una roccia nel mare in tempesta.

La nonna non era il tipo che si arrendeva facilmente. Anche quando aveva cominciato a dimenticare le cose, a confondere nomi o perdere il filo di una frase, ci sorrideva e diceva: “Fa parte del gioco, bambine. Dobbiamo solo imparare a barare un po’ meglio.”

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Quando ho chiamato le mie sorelle, ho scoperto che avevano ricevuto la stessa lettera. Emma, la più razionale di noi, ha detto che forse la nonna era peggiorata. “Magari l’ha scritta in un momento di confusione.”

Ma qualcosa non mi quadrava. La grafia era precisa. Ordinata. Lucida.

Così sono andata da lei. E sì — le serrature erano davvero cambiate.

Ho bussato. Chiamato. Nulla. Tutte le finestre erano chiuse, le tende tirate. Il suo vecchio vaso blu con i gerani non c’era più. Nemmeno le tendine ricamate a mano che aveva cucito nel ’92. La casa sembrava la stessa solo in apparenza, ma l’anima era diversa. Spenta.

Decisi di aspettare. Mi nascosi dietro la siepe, come quando da piccola spiavo i passanti immaginandomi le loro vite.

Passarono trenta, forse quaranta minuti, finché una ragazza — giovane, capelli castani raccolti in una coda alta, zaino sulle spalle — si avvicinò con disinvoltura. Trovò la chiave nella tasca, aprì la porta, entrò.

Sparì dentro. Senza esitazioni.

Il giorno dopo, andai all’anagrafe. Avevo bisogno di risposte. Non era solo curiosità — era bisogno. Rabbia. Paura.

Il colpo di grazia arrivò con una visura catastale.

Proprietario attuale dell’immobile: Silvia Rinaldi.

Non mia nonna. Non più.

Dopo molte chiamate e qualche forzatura legale (e l’aiuto di un’amica avvocatessa), scoprimmo che Silvia era un’assistente domiciliare. Era stata assegnata alla nonna sei mesi prima da un’agenzia privata. Aveva ottimi referenti, zero precedenti. Ma poi qualcosa era cambiato.

La nonna aveva firmato una procura generale a suo favore, e un mese dopo… le aveva donato la casa.

Cosa l’aveva spinta? Paura? Minacce? Manipolazione?

Non lo sapremo mai davvero. Quando riuscimmo finalmente a parlare con lei — tramite un’amica infermiera che ci aiutò a trovarla in una clinica privata dove era stata trasferita — ci guardò con occhi stanchi e disse solo:

“Pensavo di proteggerci. Lei mi ha detto che voi… volevate vendere la casa. Che volevate mettermi in un ospizio.”

Non era vero. Ovviamente non era vero.

Ma la paura, a volte, prende la forma delle parole sussurrate da chi sa come usarle.

Ora la casa è persa. La denuncia è in corso, ma gli avvocati dicono che sarà lunga. Forse impossibile da vincere. La procura era regolare. I documenti firmati. Il testamento cambiato.

La nonna ci guarda a fatica quando andiamo a trovarla. Si scusa spesso, anche se non sa bene per cosa.

Io lo so.

Non per averci mandato via. Ma per essersi sentita sola abbastanza da credere a una bugia costruita bene.

Finale:

A volte mi fermo davanti a quella casa. Silvia non c’è più — l’ha affittata, pare. Le finestre ora hanno tende grigie. I gerani non sono mai tornati.

Eppure, ogni volta, immagino ancora il profumo di torta di mele e la voce della nonna che dice:

“Dove sei stata? Fa freddo, vieni dentro.”

Ma quella voce ormai vive solo nella mia memoria.
E lì, nessuna serratura potrà mai tenermi fuori.

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