Che dovevo ringraziarlo per ogni scarpa che portavo ai piedi, per ogni bolletta pagata, per ogni sera in cui non urlava.

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Per tutta la vita, mio marito mi ha detto che gli dovevo tutto.
Che dovevo ringraziarlo per ogni scarpa che portavo ai piedi, per ogni bolletta pagata, per ogni sera in cui non urlava.
Mi diceva che, senza di lui, non sarei stata nessuno.
E io… gli credevo.
Almeno all’inizio.

Siamo stati sposati per ventisei anni. Abbiamo avuto un figlio, Luca, che ora studia Ingegneria a Bologna. È sempre stato la mia luce, la mia ancora.
Ho sopportato tutto per lui: i silenzi pieni di giudizio, le critiche mascherate da consigli, i sorrisi tirati che arrivavano solo quando avevo cucinato bene o stirato le camicie senza pieghe.
Sono rimasta anche quando una parte di me si era già spenta.
Per Luca.
Perché ogni figlio ha diritto a una casa, anche se quella casa scricchiola sotto i passi di un padre che ama solo se stesso.

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Ma una sera d’inverno, mentre guardavo le luci della città oltre la finestra della cucina, ho sentito qualcosa cambiare.
Un vuoto nuovo. O forse… libertà.
Luca era partito da una settimana per l’università. Nessuno mi chiamava “mamma” la sera. Nessuno mi aspettava per cena. Solo mio marito, col muso lungo e il telecomando in mano.
E in quell’istante, ho capito: non avevo più motivo di restare.

Mi sono voltata e gli ho detto:
— Me ne vado all’estero.

Non c’era rabbia nella mia voce. Solo calma.
Quella calma delle cose già decise, già digerite.

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Lui ha sorriso. Con quel solito disprezzo con cui si difende quando è spaventato.
— Se te ne vai, chiederò il divorzio, ha detto.

Non si aspettava la mia risposta.
Non si aspettava il tono.
Non si aspettava me.

— Perfetto. L’ho già chiesto io stamattina.

Rimase immobile. Per un attimo, sembrava un uomo senza copione, perso sulla scena della sua stessa commedia.

— Ho trovato lavoro a Lione — continuai. — Una scuola di lingue. Ho fatto il colloquio due mesi fa. Dormivo nell’altra stanza non perché russavi, ma perché preparavo i documenti. Ho un contratto. Un appartamento. E finalmente, un futuro che non ruota attorno a te.

Lui cercò di reagire. Farfugliò qualcosa su Luca, sulla famiglia, sulla vergogna.

Ma io non ascoltavo più.

Andai nella stanza di Luca. Presi dalla libreria una foto: io e lui in riva al mare, quando aveva sette anni. Rideva a bocca aperta, e io con lui.

Quella ero io.
E quella volevo tornare a essere.

Senza catene.
Senza debiti.
Senza più aspettare il permesso di vivere.

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