Quando Thomas tornò, mi abbracciò come sempre, allegro, affettuoso. Io lo guardai. E finalmente vidi le crepe.

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Stavo per sposare l’uomo dei miei sogni, finché una sconosciuta non mi fermò e mi disse: “Non è chi credi che sia.”

Mi chiamo Elena. Avevo 34 anni, un lavoro stabile come architetta d’interni, e finalmente avevo trovato la felicità con Thomas. Lui era gentile, brillante, un professore di letteratura inglese, e aveva quella rara combinazione di fascino e dolcezza che ti fa pensare: “Esistono davvero, gli uomini così?”

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A due giorni dalle nozze, mi sentivo al sicuro. Felice. Innamorata.

Poi, quella donna.
E quel biglietto.
E quell’indirizzo: Via Sant’Erasmo, 17.

Non sapevo cosa aspettarmi quando parcheggiai l’auto davanti a quella casa bassa e scrostata, in una zona periferica che non conoscevo. Il portone era socchiuso. Esitai. Poi entrai.

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L’interno odorava di chiuso e disinfettante. Un corridoio lungo, con porte numerate. Sembrava… una casa famiglia? Un piccolo istituto?

Una signora anziana seduta dietro un banco alzò lo sguardo. «Ha un appuntamento?»

Esitai. «Mi hanno dato questo indirizzo. Sto cercando… Non so, qualcuno.»

Lei mi osservò per un momento, poi annuì lentamente. «Camera 3. Sta dormendo, ma può entrare.»

La porta si aprì con un cigolio. Dentro, la luce era tenue. Su una poltrona c’era un uomo. Magro, pallido, con i capelli grigi e radi. Dormiva, la testa reclinata di lato. Poi, all’improvviso, si mosse. E i suoi occhi si aprirono.

Il mio respiro si fermò.

Era Thomas. O qualcuno che gli assomigliava in modo inquietante. Ma più vecchio, stanco. Era lui… ma non era lui.

«Chi… sei?» mormorò, la voce roca.

«Mi chiamo Elena. Sto per sposare un uomo che vi somiglia. Mi hanno detto di venire qui.»

L’uomo impallidì, poi rise. Una risata vuota, quasi disperata.

«Jonathan. Si fa chiamare Jonathan, vero?»

«No. Thomas. Thomas Carter.»

Lui chiuse gli occhi. «Non esiste nessun Thomas Carter. Si chiamava Jonathan Green. Mio fratello.»

Mi sentii mancare l’aria.

«Ha cambiato nome dopo… dopo il processo.»

«Che processo?»

«Ha ucciso una donna. La sua compagna. Disse che fu un incidente. Il corpo non fu mai trovato. Scarcerato per mancanza di prove, ma… distrusse la famiglia. Sparì. Disse che voleva ricominciare.»

Mi sedetti lentamente sulla sedia accanto. «Sta dicendo che l’uomo che sto per sposare ha ucciso una donna?»

Lui non rispose. Guardò fuori dalla finestra. Poi aggiunse: «Era bravo a sembrare perfetto. Ma dentro… dentro era ghiaccio.»

Tornai a casa sconvolta, il cuore in pezzi. Quando Thomas tornò, mi abbracciò come sempre, allegro, affettuoso. Io lo guardai. E finalmente vidi le crepe.

La freddezza negli occhi, dietro quel sorriso perfetto.

Lo affrontai il giorno dopo. Gli raccontai tutto. E per un attimo, vidi il vuoto negli occhi di chi sa che è finita. Non negò. Ma non confessò neppure. Si limitò a dire: «Pensavo che tu saresti stata diversa. Pensavo che tu non avresti scavato.»

Chiamai la polizia. Portarono via Thomas—Jonathan—senza opporre resistenza. Non dissero mai dove fosse finito il corpo della sua compagna. Ma la verità, almeno parte di essa, era finalmente emersa.

Oggi sono passati sei mesi. Vivo in un altro appartamento, con poche cose e molti pensieri. A volte mi sveglio ancora chiedendomi: Come ho potuto non vedere?

Ma poi ricordo quella donna, il suo sguardo stanco. Non la vedrò mai più. Ma le devo tutto.

Perché se non fosse stato per lei…
Avrei sposato un assassino.