Mi chiamo Elisa, ho 31 anni, vivo a Bologna e da qualche anno mi sono allontanata da tutto: amici, parenti, perfino dalla mia città natale, un piccolo paese del Piemonte.
Ma quella Pasqua sentivo qualcosa di diverso. Una nostalgia profonda. Avevo bisogno di tornare a casa. Di rivedere i miei. Di sentirmi di nuovo parte di qualcosa.
Presi il telefono e chiamai mia madre il giovedì santo, mentre uscivo dal lavoro.
Lei rispose al terzo squillo, ma la sua voce era fredda. Incolore.
«Ciao, mamma… è Elisa.»
Silenzio.
«Pensavo di venire su per Pasqua, magari la domenica mattina. Sto bene. Ho preso qualche giorno libero. Che ne pensi?»
Dall’altro capo della linea, la risposta arrivò come una lama:
«Non hai più una famiglia, Elisa.»
Rimasi in silenzio, convinta di aver capito male. Poi lei chiuse la chiamata. Senza aggiungere altro.
Provai a richiamare, ma il numero risultava bloccato. Anche quello di papà. Anche quello di mia sorella. Come se, da un momento all’altro, io non fossi mai esistita.
Il giorno dopo presi un treno. Un istinto profondo, quasi animale, mi spingeva a tornare. Non potevo accettare che tutto fosse finito così.
Arrivai davanti alla vecchia casa la mattina di Pasqua. Era tutto come lo ricordavo: il vialetto con le ortensie, la sedia di papà sul portico, la tenda rossa sbiadita.
Ma quando suonai il campanello, fu un’estranea ad aprire la porta.
«Posso aiutarti?» chiese una donna sulla cinquantina, con un cane al guinzaglio e l’aria sorpresa.
«Scusi… questa è casa dei signori Rinaldi?»
«No, mi dispiace. Io e mio marito ci siamo trasferiti qui da due anni. Non so chi siano i Rinaldi.»
Rimasi lì, ferma, sotto un cielo senza sole.
Chiamai l’ufficio anagrafe il giorno dopo. Il mio nome risultava ancora registrato… ma i nomi dei miei genitori erano stati cancellati dalla mia scheda. Al loro posto: “dati non disponibili”.
Andai in parrocchia. Don Matteo, il prete che mi conosceva da bambina, mi fissò con uno sguardo pieno di pietà.
«Tu… sei Elisa?»
«Sì, mi riconosce?»
«Dovresti andare via, figlia mia. Alcune cose non vanno disturbate.»
Cominciai a indagare. Chiamai la mia ex vicina di casa, Carla, che mi aveva fatto da babysitter. Alla terza telefonata mi rispose.
«Elisa…? Non dovevi tornare. Non dopo quella notte.»
«Quale notte? Di cosa parli?»
Silenzio. Poi:
«La notte di Pasqua, cinque anni fa. Quando tua madre ha trovato la tua stanza vuota e… tutto quel sangue. Nessuno ha mai capito cos’è successo.»
«Ma io non sono mai sparita. Me ne sono andata per l’università! Ho scritto, ho chiamato…»
«Tu sei morta, Elisa.»
«Cosa?!»
«C’è la tua lapide al cimitero. L’ho vista. Abbiamo fatto il funerale. Loro non hanno mai smesso di piangerti.»
La voce mi tremava. «Ma sono viva! Sto parlando con te!»
Un lungo silenzio.
«Non tutti quelli che camminano tra noi… hanno il permesso di farlo.»
Click. La linea cadde.
Quella notte mi guardai allo specchio, con attenzione. C’erano troppe cose che non ricordavo.
Mi accorsi solo allora che… non avevo riflesso.