Di notte, nei sobborghi, si udiva a malapena un fruscio, come se qualcuno stesse armeggiando con la terra. In un cimitero abbandonato, due uomini stavano lentamente e attentamente scavando una tomba fresca. Non lontano da loro sedeva una donna con il viso stanco, le mani tremanti intrecciate in grembo. Si chiamava Teresa, e ciò che stava per fare avrebbe cambiato la sua vita per sempre.
Suo figlio Andrea era morto da due settimane. Ufficialmente, un infarto improvviso. Poi, nel certificato, venne indicata la polmonite. E ancora: la data di nascita errata sulla lapide. Piccoli dettagli che, se notati da altri, sarebbero stati archiviati come sviste. Ma non per una madre.
Teresa non dormiva più da giorni. Sentiva che qualcosa non tornava. I sospetti si rafforzarono quando Giulio, il migliore amico di Andrea, confessò che il ragazzo negli ultimi mesi sembrava avere paura. Diceva che qualcuno lo pedinava. Che parlava di “esperimenti”, “controlli”, e che non doveva fidarsi di nessuno.
Era stato cremato, dissero all’inizio. Ma poi, dopo la sua insistenza, il corpo era stato tumulato in una bara chiusa. Troppo chiusa. Troppo rapidamente.
E così, in quella notte carica d’umidità e tensione, due senzatetto, pagati con pochi risparmi e promesse disperate, affondarono le pale nella terra. Ogni colpo era un eco che si perdeva tra i cipressi e le tombe dimenticate.
— Mangiare! — urlò uno dei due, sarcastico, mentre le mani già tremavano. Aveva paura. Lo si capiva dal modo in cui guardava il bosco attorno, come se qualcosa li stesse osservando.
La bara finalmente emerse. Teresa si avvicinò. Le bastò toccarla per capire che era troppo leggera.
«Pesava quasi 90 chilogrammi…» sussurrò, più a sé stessa che agli altri.
Con mani nervose, gli uomini sollevarono il coperchio. Un clic, uno schianto. La bara si aprì. La luna illuminava l’interno.
E tre persone rimasero immobili da ciò che videro.
Non c’era alcun corpo.
Solo un’uniforme militare piegata con cura. E una piccola fotografia. Un’immagine di Andrea, con dietro scritto a mano: “Operazione Loto. Non cercarmi.”
Uno dei due senzatetto si fece il segno della croce. L’altro, più cinico, fece per richiudere la bara, ma un suono lo bloccò: un clic metallico. Dal fondo della cassa si sollevò un pannello segreto, rivelando un dispositivo spento, simile a un vecchio registratore.
Teresa lo afferrò. Lo accese con mani tremanti.
Una voce, flebile, distorta, iniziò a parlare:
«Mamma, se stai ascoltando… vuol dire che hai trovato la bara. Non potevo dirtelo. Loro mi cercavano. Non sono morto. Ma non posso più tornare. Ti amo.»
Poi, solo silenzio.
Teresa cadde in ginocchio. Non piangeva. Sorrise appena.
Non aveva trovato un cadavere, ma una verità.
E da quel giorno, ogni notte, tornava a sedersi lì, vicino alla tomba vuota.
Aspettando. Sperando.
Perché ora sapeva che, da qualche parte, suo figlio era ancora vivo.