Mi chiamo Artem e per anni ho creduto di avere la famiglia più solida del mondo. Un piccolo rifugio profumato di torte fatte in casa, dove si rideva spesso e ci si abbracciava forte. I miei genitori, Lidia e Vittorio, mi sembravano indistruttibili, come le mura di una fortezza antica. Papà gestiva una piccola officina in un villaggio sperduto tra le colline, mentre mamma si occupava della casa e di me, il loro unico figlio. All’epoca credevo che niente avrebbe mai potuto cambiare.
Ma tutto crollò all’improvviso. Come un temporale in pieno sole. Mio padre perse il lavoro e, anche se non capivo bene cosa stesse succedendo, vedevo nei suoi occhi spegnersi la luce. Cercò di rialzarsi, trovò un’altra occupazione, ma i soldi non bastavano mai. Di notte sentivo le urla di mia madre, il rumore dei piatti infranti, le porte sbattute con rabbia. Mi nascondevo sotto le coperte, pregando che tutto tornasse com’era.
Poi arrivò il colpo finale. Papà scoprì che mamma frequentava un altro uomo. La nostra casa divenne gelida, silenziosa, piena di rancore. Un giorno, senza dire una parola, papà uscì di casa e non tornò.
Mi mancava così tanto da farmi male dentro. Chiedevo a mamma di farmelo vedere, ma lei rispondeva solo con rabbia:
— Ci ha abbandonati, Artem! È un vigliacco! Dimenticalo!
Ma io non riuscivo a dimenticare.
Un mattino d’inverno, mamma si presentò da me con un sorriso che non vedevo da anni.
— Prepara la valigia, tesoro. Andiamo al mare!
Il mio cuore saltò un battito. Il mare! Sabbia, sole, libertà! Mentre metteva in fretta le mie cose in una vecchia valigia, io presi il mio orsetto di peluche.
— Lascialo lì, te ne compro uno nuovo, ancora più bello!
E io le credetti. Era pur sempre mia madre.
Arrivammo alla stazione. Mamma comprò i biglietti, poi disse che dovevamo fare una piccola sosta. Salimmo su un autobus diretto in una zona che non conoscevo. Io guardavo fuori dal finestrino, sognando onde e conchiglie.
L’autobus si fermò davanti a un edificio decrepito. Mamma mi fece sedere su una panchina.
— Aspettami qui, vado a prenderti un gelato. Non muoverti.
Ubbidii. E aspettai. Un’ora. Poi due. Il sole calava, l’aria diventava fredda. Ma lei non tornava.
La chiamavo, piangevo, urlavo. Nessuno mi rispondeva. Alla fine, stremato, mi addormentai sulla panchina.
Mi svegliai in una stanza sconosciuta. Sperai che mamma fosse lì. Ma sulla soglia c’era papà. Con lui, una donna che non conoscevo.
— Papà! Dov’è mamma? È andata a prendere il gelato e non è tornata!
Lui mi prese le mani, lo sguardo spezzato dal dolore.
— Artem… tua madre ti ha lasciato. Non tornerà.
Gridai, scalciai, rifiutai di crederci. Ma lui non mentiva. Mi stringeva forte, e mi diceva solo la verità. Cruda. Reale.
Passarono gli anni. Ci trasferimmo a vivere ad Anapa, vicino al mare dei miei sogni. Quella donna, Galina, diventò la mia seconda madre. Mi consolava, mi ascoltava, era sempre lì. A poco a poco, cominciai a chiamarla “mamma”. Poi nacque mia sorella, Nastja. E per la prima volta capii cosa fosse una vera famiglia: calda, stabile, piena d’amore.
Solo più tardi papà mi raccontò tutta la storia. Quella notte, mamma gli telefonò solo per dirgli dove mi aveva lasciato. Poi sparì. Per sempre. Le tolsero la patria potestà. Non chiese mai di vedermi.
Crescendo, trovai un buon lavoro, comprai una casa a due passi dalla spiaggia. Tutto sembrava a posto.
Ma una sera d’autunno, umida e scura, la vidi. Seduta su una panchina vicino al mio portone. Curva, avvolta in uno scialle logoro. Alzò lo sguardo e sussurrò:
— Artem… sono tua madre.
Davanti a me c’era solo una sconosciuta invecchiata.
— Perché ora? – fu tutto ciò che riuscii a dire.
Chiamai papà e Galina. Arrivarono subito. Papà mi guardò negli occhi:
— La decisione spetta solo a te, figlio mio.
Guardai quella donna che un giorno mi aveva abbandonato sulla panchina di una stazione. E non provai nulla. Solo un gelo profondo.
Lei fece un passo per entrare, ma io la fermai.
— Tu non sei mia madre. Mia madre è quella che non mi ha lasciato. Che ha scelto di esserci ogni giorno. Tu sei solo un’estranea. E non c’è posto per te nella mia vita.
Lei scoppiò in lacrime. Ma io rimasi fermo.
Se ne andò nella notte, come aveva fatto tanti anni prima.
Abbracciai forte mio padre e Galina.
— Vi voglio bene. Grazie per esserci sempre stati.
Loro erano la mia famiglia. La mia verità. Il mio rifugio.
E lei? Solo un’ombra sbiadita del passato, che avevo finalmente superato.