Quella sera di febbraio, l’aria sembrava tagliare la pelle. Il termometro sul davanzale oscillava tra i meno venticinque e i meno ventisei. Irina fissava il vetro ghiacciato della finestra, le braccia incrociate, mentre Mikhail indossava guanti e giacca pesante.
— Magari andiamo domani? — mormorò lei, scrutando il cielo che si scuriva troppo in fretta.
— Domani dicono che si congela anche il respiro, — rispose lui, tirando su la zip. — Il frigorifero piange miseria, Ira. Bisogna farlo.
Irina prese la sua lista — tre foglietti riempiti con una calligrafia meticolosa — e, avvolgendosi nella sciarpa, annuì con rassegnazione.
— Allora andiamo. Facciamo scorte per una settimana. E che Dio ce la mandi buona.
Al supermercato, tra i carrelli che si urtavano e la calca silenziosa di chi cercava conforto tra gli scaffali, Irina era un generale in missione. Mikhail la seguiva come sempre, rassegnato a quell’energia organizzata che gli aveva riempito la vita per trent’anni. Quando uscirono, con la macchina stracolma, il gelo sembrava ancora più pungente.
Poi, a metà strada, Irina gridò:
— Ferma! Misha, fermati subito!
Lui frenò di colpo.
— Che succede?
Irina indicò qualcosa vicino a un lampione. Un fagotto peloso, immobile accanto a due sacchi. Scese dalla macchina quasi di corsa, incurante del vento tagliente. Sul palo, con un pezzo di scotch, c’era un biglietto:
“Mi trasferisco. Non posso portarla con me. Si chiama Lusha. Ha tre anni. C’è cibo nei sacchi. Mi dispiace.”
Irina si accovacciò vicino alla cagnolina, che tremava ma non si muoveva. Solo gli occhi parlavano, e dicevano tutto.
— Misha, non possiamo lasciarla qui. Guarda com’è ridotta.
Mikhail la guardò a lungo, poi sospirò.
— Parlerai tu con il veterinario.
Lusha salì sull’auto con passo timido, come chi ha perso tutto e non osa sperare in nulla.
A casa, però, li aspettava Boris, il vecchio gatto dal carattere altezzoso. Quando vide la nuova arrivata, sparì sotto il letto con un ringhio basso. I primi giorni furono complicati. Lusha non mangiava, Boris non usciva dalla camera. Irina cercava di mediare, con dolcezza e biscotti.
Poi, una mattina, Irina si svegliò con la febbre. Rimase a letto, stanca e spenta. Fu allora che Lusha si avvicinò. Si accoccolò ai suoi piedi, leccò piano la mano sudata. Boris osservò la scena da sopra l’armadio e, quasi con riluttanza, scese. Si sdraiò accanto a loro. La tregua era siglata.
Da quel giorno, qualcosa cambiò. La casa sembrava più viva, i silenzi più pieni. Lusha e Boris, prima rivali, divennero complici. Mikhail, ogni tanto, li osservava e scuoteva la testa, fingendo di essere ancora contrario.
Un anno dopo, Mikhail vide Irina seduta in veranda, intenta a spazzolare il pelo di Lusha.
— Sai, Ira… siamo stati fortunati.
Lei lo guardò.
— Fortunati?
— Sì. Che ci siamo fermati. Che l’abbiamo vista. Che l’abbiamo scelta.
Irina sorrise.
— No, amore. È stata lei a scegliere noi. E forse anche chi l’ha lasciata ha avuto fortuna. Perché, se fosse finita in altre mani…
Non concluse la frase. Lusha le leccò il naso. Boris, dal cuscino, lanciò un miagolio ironico.
— Eh sì, sei proprio la regina adesso — rise Irina, accarezzandola.
E la casa, quella casa piena di piccoli rumori e grandi silenzi, non fu mai più la stessa. Era diventata un rifugio d’amore.