La voce sfiorò l’aria della sierra, acuta e disperata, come una lametta che taglia il vento, talmente gelida che pareva quasi impercettibile.
«Signore? Per favore… signore, cerca un’aiutante domestica? Sono disposta a fare qualsiasi cosa.»
Carlos Álvarez de Toledo non si fermò. Era in ritardo. La tensione nelle sue spalle raccontava di una riunione del consiglio di amministrazione che si era protratta oltre ogni limite, tre lunghe ore. Camminava veloce, le sue eleganti scarpe italiane scricchiolavano sulla ghiaia del vialetto di casa, mentre cercava a tentoni il pesante chiavistello dei massicci cancelli in ferro battuto che proteggevano la sua villa a Somosaguas. Ogni giorno si sentiva circondato da suppliche, e Madrid era un luogo colmo di disperazione. La sua dimora era diventata un magnete per chi era nel bisogno, ed egli aveva imparato a innalzare muri alti come i pini secolari che circondavano la sua proprietà.
«Per favore…»
La voce tremò. Non fu solo la parola a fermarlo, ma il suono che la seguì. Un debole e soffocato gemito, simile a quello di un piccolo gattino. Proveniva non dalla giovane, ma dal fagotto che stringeva tra le braccia.
Si girò, l’impazienza chiaramente visibile sul viso solcato. «Non ho contante con me. Dovresti andare al dormitorio della parrocchia…»
Si fermò bruscamente.
Era solo una ragazza, forse venti o ventidue anni, ma la miseria sul suo viso la faceva sembrare tanto quindicenne quanto quarantenne. La sua pelle era pallida, segnata dall’inquinamento della M-30, e il suo aspetto testimonianza di una fame così profonda da sembrare cronica. Stringeva al petto un ammasso di coperte sbiadite, e un piccolo pugno pallido emergeva dal loro abbraccio caldo. Un neonato. Sua sorella, aveva detto.
Il vento le faceva frusciare la leggera giacca, tirandola sulle gambe. Non tremava; vibrava, come se un filo di ferro le fosse teso dentro. Eppure, non distolse lo sguardo. I suoi occhi, grandi, scuri e stanchi ma fermi, incontrarono i suoi. Non era lo sguardo di semplici mendicante, ma quello di una soldatessa sul campo di battaglia, l’ultima a resistere.
In quel momento, Carlos la notò chiaramente.
Proprio sotto l’orecchio, dove il colletto della giacca si era aperto a causa del vento, appariva una piccola voglia. Un capriccio della natura. Una mezzaluna perfetta.
Carlos Álvarez de Toledo smise di respirare. La mano che cercava il chiavistello si bloccò, il freddo del metallo sembrava penetrargli fino all’anima.
Quella voglia la conosceva.
La riconosceva bene.
Il mondo attorno a lui svanì. Il vento, la ghiaia, il silenzio opulento del complesso residenziale… tutto si dissolse, sostituito dall’odore d’ozono prima della tempesta e dalle urla del padre che riecheggiavano nella sua mente. Aveva ventidue anni in meno, seduto nell’atrio di quella villa, osservando il volto di suo padre, don Alfonso Álvarez de Toledo, avvampare di rabbia. Sua sorella minore, Margarita, piangeva, aggrappata a un fagotto identico, supplicando.
«Non porterà il cognome di questa famiglia, padre! Non avrà nulla! Ma non me ne libererò!»
«Sei una vergogna! Hai macchiato il nome della nostra famiglia! Fuori! FUORI DALLA MIA CASA!»
Ricordò Margarita che si voltava verso di lui, con gli occhi pieni di lacrime imploranti. «Carlos, ti prego. Non lasciare che lo faccia. Carlitos, dilli qualcosa.» E lui, purtroppo, era rimasto in silenzio. Il suo sguardo era calato, mentre le guardie di suo padre spingevano fuori Margarita, aggiogata a un neonato, nel freddo di una tempesta invernale.
Lei era morta. Erano state effettuate ricerche, certo. Quando suo padre morì, aveva investito milioni, milioni di euro, per trovarla, per allontanare la colpa che si era annidata nel suo petto come un cancro. Ma lei era svanita. Margarita, e il bambino. Il bambino che, in un vago ricordo, il medico le aveva descritto con disprezzo, menzionando la mezzaluna sul collo.
Il suo cuore batteva con tale forza contro le costole da fargli male. Fissò la ragazza. Non poteva essere. Dopo tutto questo tempo… morire di fame proprio davanti al suo cancello.
«Dove l’hai trovato?» chiese. La sua voce era acuta e aspra, talmente irriconoscibile da sorprenderlo.
La ragazza —Elena, svelò— sbatté le palpebre, sorpresa dal cambio di tono. Istintivamente si alzò il colletto della giacca, coprendo il segno, mentre lanciava uno sguardo verso la strada, come se calcolasse le possibilità di fuga.
«Cosa dovrei prendere?»
«Quella voglia. Sul collo.»
La sua mano si strinse sulla stoffa. «Questa? Io… ci sono nata, signore.»
Le sue parole lo colpirono come un pugno allo stomaco. Stringendo la grata, con il freddo del metallo che gli mordeva il palmo, cercò di restare in piedi mentre il passato si abbatteva su di lui in modo doloroso e violento.
«Come ti chiami?» pretese, più che domandò.
«Elena, signore.»
«E la bambina?»
«Sofía. Mia sorella.» Strinse il fagottino con più forza. «Mi scuso per averla disturbata. Me ne vado. È solo che… non mangia da ieri. So pulire. So cucinare. So lavare i pavimenti. Posso fare qualsiasi cosa…»
Sofía.
Il nome di sua madre. Doña Sofía.
Era troppo. Un fulmine, fin troppo sorprendente. Questo era il destino che bussava alla sua porta principale con le nocche sanguinanti.
«Entra» disse Carlos, a bassa voce.
Elena indietreggiò, visibilmente scossa. La sua paura era tangibile, un odore pungente che tagliava l’aria fredda. Aveva imparato, comprese Carlos, che gli uomini con denaro e potere rappresentavano più un pericolo che un aiuto.
«Io… ecco, signore, cerco solo lavoro. O qualcosa da mangiare. Non posso…»
«Non te lo sto chiedendo» disse lui, in un tono più dolce questa volta, ma ancora carico di un’urgenza che la spaventò. Con un gesto, cercò il chiavistello e spalancò il cancello. «Entra. Subito. Tua sorella ha freddo.»
Lei esitò un attimo, scrutando il suo viso scuro in cerca di qualche trappola, di un prezzo nascosto. Non trovò nulla. Vide solo un uomo distrutto, un uomo potente che la guardava come se avesse appena visto un fantasma.
Stringendo la sorellina, Elena fece un passo tremante.
E così varcò la soglia.
Il calore della villa la accolse come un muro fisico. Era opprimente, un calore che odorava di cera d’api, legno pregiato e un profumo floreale costoso che le girava la testa. Barcollò fino al margine del tappeto persiano dell’atrio, con gli occhi spalancati di fronte ai pavimenti di marmo di Macael, la scala in mogano che si perdeva nell’ombra del piano superiore, il lampadario che brillava di cristalli come lacrime congelate. Era un palazzo. Era una prigione. Era spaventoso.
«Carlos? Sei tu? Quanto tempo ci metti?»
La voce che interruppe il silenzio era acuta, elegante e fredda come il marmo sotto i suoi piedi. Clara entrò con passo leggero nell’atrio, avvolta in seta nera. Tornava da un evento di beneficenza. I diamanti brillavano al suo collo. Si bloccò all’improvviso nel vedere Elena.
Gli occhi di Clara non scrutavano a caso; valutavano. Catalogavano la giacca sporca, il viso irregolare, il fagotto di stracci che era la bambina. Guardava Elena come se fosse un residuo attaccato alla suola di una scarpa.
«Carlos» disse con una calma sorprendente, la quiete che precede la tempesta. «Che cos’è questo?»
Elena si rannicchiò, stringendo di più la bambina. Istintivamente abbassò la testa, come aveva imparato nelle strade di Lavapiés. Non incrociare lo sguardo dei ricchi. Sii piccola. Sii invisibile.
«Vai a chiamare la signora Pilar» ordinò Carlos a sua moglie, con una voce ancora tanto estranea e severa. «Dille di preparare la stanza degli ospiti nell’ala est. E di portare del latte. Latte tiepido e biscotti. E del cibo. Brodo. Qualsiasi cosa.»
Clara alzò un sopracciglio perfettamente curato. «La stanza degli ospiti? Carlos, sei impazzito? Se insisti con le tue opere di carità, il personale di cucina può prepararle un panino. Alla porta sul retro.»
«Non è carità, Clara» disse Carlos, senza distogliere lo sguardo da Elena. «E non userà la porta sul retro.»
Con un gesto, indicò una poltrona di velluto color crema nel salotto adiacente all’atrio. «Elena. Si sieda. Per favore.»
Elena guardò la poltrona —immacolata— e poi i suoi vestiti sporchi. Scosse la testa. «Non posso, signore. La sporcherò.»
«Si sieda» ordinò lui.
Elena, tremando, si posò sul margine del cuscino, come un uccellino pronto a spiccare il volo. La bambina, Sofía, si agitando, il viso contracto dall’imminente pianto.
Carlos rimase fermo, osservandole. I suoi occhi passavano dalla bambina a Elena. «Hai detto che tua sorella ha fame. Dove sono i tuoi genitori?»
Le labbra di Elena tremarono, ma ella alzò la testa. L’orgoglio tornò, quell’insensibile dignità che l’aveva mantenuta in vita. «Morti, signore. Mia madre… è morta quando ero piccola. Non ho mai conosciuto mio padre. Eravamo solo io e lei. E poi… ha avuto Sofía. Ed è morta anche lei. Siamo rimaste solo noi due.»
«Sofía è tua sorella?» intervenne Clara, con una voce carica di incredulità e disgusto. «Ma sembri una ragazzina. Com’è possibile?»
«È la mia sorellastra, signora» sussurrò Elena, fissando il pavimento. «Mia madre… l’ha avuta prima di morire.»
I pezzi iniziarono a incastrarsi, formando un’immagine che ghiacciò il sangue di Carlos. Margarita, sola e terrorizzata, partoriva un’altra bambina nella miseria di un appartamento fatiscente.
«Tua madre» disse Carlos, avvicinandosi, il cuore che gli batteva contro le costole come un martello. «Che cosa ti ha raccontato sulla sua famiglia? Su se stessa?»
Elena esitò. Volse lo sguardo da Carlos, intenso e stranamente agitato, a quello freddo e calcolatore di Clara. Era intrappolata tra due fuochi.
«Lei… non ne parlava. La rendeva molto triste. Diceva solo che… che non la volevano. Che l’avevano cacciata.»
«Come si chiamava?» sussurrò Carlos. L’aria nella grande e silenziosa villa sembrava trattenere il fiato.
Elena strinse Sofía così forte che la bambina emise un piccolo grido di protesta. «Me l’ha detto una volta. Quando era molto malata, in ospedale. Mi ha fatto promettere che non l’avrei dimenticato. Se mai fosse servito.»
«E qual era?»
«Disse che si chiamava Margarita. Margarita Álvarez de Toledo.»
La stanza si riempì di un brusio. Clara emise un suono a metà tra un sobbalzo e una risata sprezzante. «È impossibile! È una bugia! È una truffa!»
Carlos la sentì, ma la sua voce parve vagare in lontananza, come se provenisse da un tunnel. Si limitò a guardare la ragazza. Margarita. Sua sorella. Questa era sua figlia. La bambina che aveva permesso a suo padre di cacciare nella tempesta. E quest’altra bambina, Sofía. Sua nipote.
«Dio mio» sussurrò, lasciandosi cadere sulla poltrona di fronte a Elena. «È vero.»
«Che cosa è vero?» chiese Elena con voce tremante, la paura che cresceva nei suoi occhi.
«Carlos!» esclamò Clara, perdendo la calma. «Stai ascoltando? È una truffa, un chiaro inganno! Ha visto il cognome sulla targa del cancello e…!»
«Non ha visto il cognome, Clara» la interruppe Carlos con voce ferma, una determinazione che non usava da anni. «Vive da sei mesi in un dormitorio a due isolati dal mio ufficio sulla Castellana.»
Clara rimase sbalordita. «E come diavolo lo sai?»
«Perché la stavo cercando» disse, la voce frantumata. «È un fantasma che mi insegue da ventidue anni.» Guardò Elena, con un’espressione di dolore tanto profonda da sorprendere. «Elena… Margarita era mia sorella.»
Il mondo di Elena vacillò. Il caldo, il freddo, la paura… tutto fugacemente oscurato da un’unica, devastante rivelazione. Quest’uomo… questo milionario… era suo zio.
«Io… non capisco» balbettò.
«Credo di sì» disse Carlos dolcemente. Si alzò, la sua figura proiettava un’ombra su di lei. «Clarissa, chiama il dottor Alcaraz. Il mio medico. Che venga. Subito.»
«Un medico? Hai bisogno di uno psichiatra!» sibilò Clara.
«Ha bisogno di un controllo. E della bambina» affermò Carlos, la voce che si faceva più dura. «E poi chiama Javier. Il mio avvocato.»
Il volto di Clara impallidì. «Un avvocato? Carlos, fermati. Stanno ingannando te. È una squallida…»
«Esci dalla stanza, Clara!»
Lo schiaffo del silenzio fu più forte del grido. Clara lo guardò, incredula. «Che cosa hai detto?»
«Ho detto che esci dalla stanza» ripeté lui, a tono minaccioso. «Vai a prendere il latte. E lasciami solo con mia nipote.»
Gli occhi di Clara si ridussero a fessure di pura furia. Guardò Elena con uno sguardo che prometteva battaglia. Poi, senza dire una parola, con la schiena dritta come un palo, si voltò e uscì dalla sala, l’eco dei tacchi sul marmo simile a colpi secchi di pistola.
Il silenzio che seguì era denso, interrotto solo dal lieve gemito di Sofía. Elena guardò la sorellina con tristezza, mentre le mani tremanti cercavano di calmarla dondolandola.
«Lei… ha così tanta fame» sussurrò, con le lacrime che le affioravano agli occhi, ora che il pericolo immediato (Clara) se n’era andato.
«Non avrà mai più fame» disse Carlos, la voce gravata dal peso di ventidue anni di colpa. «Nessuna delle due. Te lo giuro sulla memoria di tua madre.»
Quella notte, Elena si ritrovò sveglia in un letto più grande di qualsiasi stanza avesse mai abitato. Le lenzuola erano così morbide che sembravano acqua. Sofía, nutrita con latte caldo, pulita e avvolta in una culla di legno intagliato, dormiva profondamente per la prima volta nella sua breve vita.
Ma Elena non riusciva a chiudere occhio. La paura la attanagliava. Questo non poteva essere reale. Di lì a poco si sarebbe risvegliata sul pavimento freddo di linoleum del dormitorio, con l’odore di candeggina e disperazione che le impregnava la pelle. Da un momento all’altro, la donna con la collana di diamanti, Clara, sarebbe tornata a buttarla nuovamente in strada.
Era una Álvarez de Toledo. Ma per lei, quelle parole non avevano significato. Erano un nome inciso su un cancello di ferro. Ma “famiglia”… quella parola la comprendeva perfettamente. Era la mano gelida di sua madre, nel letto d’ospedale. Erano lei e Sofía contro il mondo. E comprendeva, con una certezza glaciale, che la padrona di casa, Clara, non l’avrebbe mai accettata come parte della famiglia.
Mentre Elena scrutava le ombre proiettate dalla luna sul soffitto della stanza degli ospiti, nello studio al piano di sotto, Carlos sorseggiava un brandy Cardenal Mendoza che non stava bevendo. Osservava una fotografia incorniciata in argento sulla scrivania: una giovane sorridente, con i capelli scuri e ribelli, sulla spiaggia di San Sebastián. Margarita. Con quella stessa mezzaluna visibile sul collo del vestito estivo.
Chiamò il suo avvocato. «Javier, scusa l’ora. Ho trovato la figlia di Margarita. E sua nipote. Sono qui, a casa mia. Domattina, all’alba, voglio che inizi le pratiche di adozione. E voglio cambiare il mio testamento.»
Le settimane che seguirono furono un turbine di caos organizzato. Carlos si muoveva con una velocità e una determinazione che stupirono il suo entourage. Assunse investigatori privati, non per screditare Elena, bensì per costruire una solida verità legale attorno a lei.
Trovarono le tracce. Un certificato di morte per una certa “Margarita A.T.” all’Ospedale 12 de Octubre, causa del decesso: polmonite aggravata da malnutrizione. Un certificato di nascita per “Elena”, madre: Margarita. Padre: sconosciuto. Un altro per “Sofía”, madre: Margarita. Padre: sconosciuto. Le evidenze documentali tracciavano una tragica mappa del triste e disperato declino di sua sorella nei bassifondi di Madrid. E dimostravano, senza alcun dubbio, che Elena era chi sosteneva di essere.
Carlos assunse il dottor Alcaraz perché imponesse a Elena e Sofía un regime rigoroso. Cibo, vitamine, riposo. Ingaggiò una tutrice, una donna anziana e gentile di nome doña Isabel, per assistere Elena nell’istruzione che non aveva mai ricevuto.
Poco a poco, le occhiaie di Elena svanirono. Le guance di Sofía iniziarono a diventare rotonde e rosate. Lo sguardo infossato e braccato di Elena si dissolse, sostituito da un’intelligenza viva e una curiosità fervente.
Ma mentre Elena rifioriva, l’ostilità di Clara si incrostava come una ferita infetta.
Era un fantasma nella sua stessa casa, un’ombra elegantemente vestita di risentimento. Non si scontrò mai apertamente con Elena dopo quella prima notte. I suoi attacchi erano furtivi, pungenti come punte di spillo, accuratamente studiati per farla sanguinare.
«Ah, Elena, cara» diceva a tavola, dove Elena ora era obbligata a sedere, vestita in abiti nuovi che la mettevano a disagio. «È così che tieni la forchetta… da dove vieni? Che… pittoresca.»
Quando doña Isabel lodava la prontezza mentale di Elena, Clara sorrideva, un sorriso che non raggiungeva mai i suoi freddi occhi. «È incredibile cosa possano fare un po’ di sapone e del cibo caldo. Quasi ti fanno dimenticare… le origini.»
Sussurrava al personale. Sussurrava alle amiche al telefono, in salotto, con quella voce da signora dell’alta società sufficientemente alta perché Elena potesse sentirla dal corridoio. «Una truffatrice completa… Carlos è senile… si aggrappa a qualsiasi cosa… la ragazza è una selvatichetta, una chiacchierona evidente.»
Elena si sforzò di ignorarla. Concentrò le sue energie su Sofía. Si dedicò ai suoi studi con doña Isabel. Imparò la storia, la matematica, delle cose oltre le strade che erano state la sua gabbia. Ma soprattutto, imparò a conoscere sua madre.
Carlos, pur riservato e goffo, le regalò il dono che non era riuscita a offrire a Margarita: il ricordo. Mostrò a Elena le fotografie dell’album di famiglia. Margarita da bambina, piena di vita e sorridente, nel giardino di quella stessa casa, con la stessa voglia a mezzaluna. Margarita al ballo di debutto, che rideva.
«Hai i suoi occhi» disse Carlos un pomeriggio in biblioteca, stringendo una cornice d’argento con la foto di San Sebastián. «Era testarda anche lei. Ostinata. Indomabile. Sarebbe stata così fiera di te, Elena. Di come hai protetto tua sorella. Di come hai sopravvissuto.»
Elena accarezzò il vetro freddo, una lacrima scivolò sulla sua guancia. Era la prima volta che vedeva sua madre sorridere. «Grazie» sussurrò. «Per questo. Per… vederla in me.»
«No, Elena. Grazie a te. Per avermi trovato. Perché mi hai dato una possibilità di… riparare a qualcosa. Ho lasciato che mio padre la cacciasse. Sono stato zitto. Ho avuto paura. E quella paura ha ucciso mia sorella.»
«Non l’ha uccisa lei, signore.»
«Non chiamarmi signore. Sono tuo zio. Per favore. Chiamami zio Carlos.»
È stato quel momento, quel silenzioso passaggio di affetto e di eredità, a inasprire la furia di Clara. Aveva sopportato l’ossessione di Carlos per la sua “sorella perduta” per due decenni. Era un fantasma conveniente, una colpa che ella sapeva gestire. Ora quel fantasma aveva un volto, una voce e un posto a tavola. Peggio ancora, aveva un posto nel cuore di Carlos che Clara non era riuscita mai a conquistare.
E poi venne il testamento.
Carlos, dolorosamente consapevole della propria mortalità e della colpa gravosa, cominciò a adottare misure legali. Stava istituendo un trust. Si stava impegnando a proteggere Elena e Sofía legalmente, riconoscendo il loro posto come Álvarez de Toledo, con una parte significativa del patrimonio familiare.
Clara scopri un progetto sul tavolo di Carlos. La sua rabbia, che era stata trattenuta per settimane, divenne una tempesta fisica che finalmente esplose.
Trovò Elena in biblioteca, immersa in un libro di storia lasciato da doña Isabel, mentre Sofía dormiva nel passeggino accanto a lei. Un lampo della tempesta in arrivo illuminò l’ambiente, rivelando la malignità sul volto di Clara.
«Credi di aver vinto, vero?» sibilò Clara a bassa voce, chiudendo la porta alle sue spalle.
Elena balzò in piedi, indietreggiando contro una libreria. «Io… non so di cosa parli.»
«Non fare la stupida con me. Non sei un’attrice così brava» sputò Clara, avanzando, i suoi occhi che scivolavano disprezzosamente sulla bambina addormentata. «Il testamento. I soldi. Arrivi qui con i tuoi stracci, la tua mocciosetta bastarda e una piccola voglia sul collo, e pensi di potermi rubare tutto?»
«Non ho mai chiesto niente di tutto ciò!» La voce di Elena tremava, ma restò determinata. «Ho chiesto lavoro! Sei tu l’unica che vede solo il denaro!»
«Perché il denaro è mio!» urlò Clara, perdendo finalmente il controllo. «L’ho guadagnato io! Ho sostenuto Carlos mentre costruiva il suo impero! Ho organizzato le sue feste, conquistato i suoi rivali, custodito i suoi segreti! Sono stata sua moglie per trent’anni e non mi sostituirà una… una sfruttatrice di strada!»
«Non cerco di sostituirti» ribatté Elena, il cuore che le martellava nel petto, posando istintivamente una mano sul passeggino di Sofía. «Ho solo… trovato una famiglia.»
«Famiglia?» Clara scoppiò in una risata acuta e amara. «Non siamo famiglia. Sei un’imposizione. Sei l’immondizia che tua madre ha lasciato. E farò in modo che ti tolgano di mezzo.»
Prima che potesse aggiungere altro, la voce di Carlos ruppe il silenzio, gelida. «Basta.»
Era lì, in piedi, il viso pallido come marmo, con le mani chiuse a pugno. «Basta, Clara. Ti dimentichi di chi sei.»
«No, Carlos» rispose girandosi di scatto verso di lui, con le lacrime di rabbia che lucicavano nei suoi occhi. «Sei tu che hai dimenticato! Hai dimenticato il tuo nome, la tua eredità, la tua dignità! Tutto per una mendicante con una voglia che ti ha raccontato la storia che volevi sentire!»
Le parole rimasero sospese nell’aria, velenose e affilate.
«Questo è del mio sangue» affermò Carlos con voce piatta e priva di anima. «E ha più dignità e anima da Álvarez de Toledo di quanta tu ne avrai mai. La riunione con gli avvocati è domani mattina. Puoi venire, oppure mandare il tuo legale. Ma è già deciso.»
Le linee di battaglia erano tracciate. L’alta società madrilena, fiutando l’odore di sangue nell’acqua, cominciò a schierarsi. Le voci correvano nei club e nei ristoranti di lusso. La legittima erede segreta del magnate! La moglie disprezzata! La principessa mendicante!
Carlos, in un ultimo gesto di sfida, decise di chiudere la questione. Organizzò il Gran Gala Annuale di Beneficenza della Fondazione Álvarez de Toledo nella villa. E avrebbe presentato Elena al mondo.
La sera del gala, la villa brillava di luci. Centinaia di membri dell’élite madrilena, avvolti in gioielli e seta, riempivano il grande salone da ballo, con sguardi inquieti, desiderosi di assistere allo spettacolo. Clara era lì, un blocco di ghiaccio in un abito rosso sangue, con un sorriso tirato, stringendo il bicchiere di champagne così forte da farle diventare bianche le nocche.
Elena si trovava in cima alla grande scalinata, le mani tremanti. Indossava un semplice vestito blu cobalto che Carlos le aveva comprato. Si osservò nello specchio del pianerottolo e vide una sconosciuta. Vide sua madre.
«Non posso» sussurrò a Carlos, che si era avvicinato a prenderla. «Mi fissano tutti. Sembrano… lupi.»
«Lo sono» rispose Carlos, porgendole il braccio. «Ma tu sei una Álvarez de Toledo. E noi non arretriamo mai.»
La guidò giù per le scale. Un silenzio sepolcrale e denso avvolse il salone. Tutti gli sguardi si volsero verso di lei. Il volto di Clara si trasfigurò in una maschera di puro odio.
Carlos si avvicinò al piccolo leggio con il microfono. «Grazie a tutti per essere qui» esclamò con voce potente, che risuonò nell’intera sala. «Quest’anno il nostro gala è speciale. Molti di voi hanno sentito delle voci. Stasera, voglio mettere fine a tutto questo.»
Si voltò, con il braccio ancora intrecciato a quello di Elena. «Per ventidue anni ho creduto che mia sorella Margarita fosse scomparsa per sempre. Mi sbagliavo. È morta, sì, ma ha lasciato un’eredità. Una figlia. Una giovane donna che, con un coraggio che mi fa vergognare, ha tutelato sua sorella e ha affrontato l’impossibile. È un onore, e una redenzione, presentarvi mia nipote, la nuova erede del patrimonio Álvarez de Toledo, Elena Álvarez de Toledo.»
Un unico, collettivo sussulto percorse la sala. Il bicchiere di champagne scivolò dalle dita di Clara e si frantumò sul pavimento di marmo, un suono acuto e violento nel silenzio.
Elena, terrorizzata e con il viso impallidito, si guardò attorno tra la folla, che la giudicava.
Poi, da un lato, vicino a dove si trovava la signora Pilar, una vocina gridò: «Nena!»
Sofía, diventata ora una bimba sana, dai brillanti occhi e le guance rosee, si liberò dalle braccia della tata e corse, impacciata come solo una bimba di un anno può essere, per abbracciare le gambe di Elena.
Elena, senza pensarci, spinta da un istinto che superava la paura aprì il braccio, sollevando la sorellina con tenerezza.
E mentre restava lì, stringendo Sofía, tutta la sua paura svanì. Fu sostituita dalla stessa ferocia protettiva che aveva avuto davanti al cancello di ferro, nel vento gelido.
Guardò la folla, non come mendicante, né come erede, ma come quello che era sempre stata: una sorella. Con la testa alta.
Per la prima volta nella sua vita, non era invisibile. Era invincibile.
Anni dopo, la storia di Elena Álvarez de Toledo divenne leggenda nei circoli madrileni. La ragazza che chiese lavoro ed ereditò un impero. Ma la leggenda trascurava sempre un dettaglio. Si concentrava sul denaro. Elena non lo fece mai.
Dopo la morte di Carlos, alcuni anni più tardi, in pace, redento e amato dalle sue nipoti, Elena usò la sua eredità. Ma non per acquistare vestiti o gioielli, ma per ricostruire la città che quasi l’aveva distrutta.
Fondò la Fundación Margarita y Sofía.
Costruì rifugi per donne maltrattate, scuole per bambini senza casa e asili nido gratuiti a Lavapiés e Vallecas, affinché madri single come la sua potessero lavorare.
Clara trascorse i suoi giorni nell’attico di calle Serrano, un fantasma amaro in una gabbia d’oro, consumata da un risentimento che non la lasciò mai.
In una fredda notte di novembre, identica a quella di tanti anni prima, Elena si trovava davanti alla porta del suo ultimo progetto, un centro di accoglienza per giovani senza tetto, costruito nello stesso isolato dove era solita mendicare. Una giovane, stringendo la mano di un bambino piccolo, si avvicinò con lo sguardo basso, tremante.
«Signora?» sussurrò la ragazza con un accento straniero. «Io… ho sentito che forse aveva del lavoro. Posso pulire. Farò qualsiasi cosa.»
Elena la guardò, vedendo riflessa perfettamente se stessa. Sorrise, un sorriso caldo che contrastava con il freddo della notte, e spalancò la porta, lasciando fluire una folata di luce e calore.
«Abbiamo molto di più» disse Elena con voce gentile. «Entrate. Fuori fa troppo freddo.»