La quiete nella sala di guardia era densa come un anestetico, e abbagliante nella sua piacevole ottusità. Anton Viktorovich, il chirurgo di guardia, si immergeva in essa come in un abisso, lasciando che la stanchezza sciogliesse la tensione accumulata durante l’ultima operazione di sei ore. Le sue palpebre si facevano pesanti, la coscienza scivolava in un vuoto sereno, privo di grida, gemiti o il fastidioso bip delle macchine.
Questa fragile idillio fu spezzato da un suono acuto e penetrante proveniente dal pronto soccorso. Non era un urlo, né un lamento, ma qualcosa di intermedio: un grido che si era trasformato in una disperata discussione. Anton Viktorovich si alzò lentamente, riluttante, sul gomito. Il suo corpo, esausto fino all’ultima cellula, protestò ad ogni movimento. Si stiracchiò pigramente, e un profondo sbadiglio si bloccò in gola quando il suo sguardo cadrà sulla porta.
— Che rumore è questo? — la sua voce riecheggiò ovattata e disidratata, ma già si percepiva un sottotono autoritario.
Nell’arcata della porta, illuminata dalla luce tremolante delle lampade fluorescenti, si fermò Lyudmila, l’infermiera dallo sguardo castano come un marrone maturo e con un taglio di capelli corto e quasi maschile. I suoi occhi si batterono sulla difensiva, come a scacciare una fastidiosa mosca, mentre cercò di spremere un sorriso rassicurante, ma il risultato fu solo una smorfia tesa, segnata da un timore primordiale. Sapeva che Anton Viktorovich, giovane ma già leggendario