Mi sono trasferita in un appartamento al quinto piano, vista porto, in una cittadina dove nessuno conosceva il mio nome.

I miei nipoti mi avevano già riservato un posto al cimitero e una lapide. Con tanto di foto in bianco e nero, risalente alla comunione di mia figlia, dove appaio con la permanente fresca e uno sguardo vagamente stanco. Il marmista aveva inciso con cura: “Adelaide Conti – Una donna gentile”.
Carino, vero?

Solo che avevano dimenticato una cosa fondamentale: io sono molto più che una persona gentile.

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Avevo settantotto anni, è vero, e un’anca che cigolava ogni tre passi. Ma dentro ero viva. Non come si intende di solito, con la pressione stabile e la glicemia sotto controllo. Intendo viva davvero: con desideri, segreti e soprattutto un piano.

Loro, i miei nipoti — Giacomo e Livia — mi vedevano come una vecchia pianta da salotto, che si annaffia ogni tanto per buona coscienza. Passavano ogni due settimane, uno con le crostate confezionate, l’altra con l’aria colpevole. Poi, una mattina di novembre, ho trovato il preventivo del cimitero nella posta: “Gentile signora, confermiamo l’assegnazione del loculo 78-D e la realizzazione della lapide come da bozza”.

Non sapevo se ridere o piangere. Invece ho fatto qualcosa di meglio.
Ho deciso di scomparire.

Ho svuotato il conto. Due pensioni e vent’anni di risparmi. Ho lasciato un biglietto sul tavolo della cucina con scritto: “Sono andata a trovare chi sono stata, e forse anche chi sarò. Non mi cercate. Se vi manca il mio silenzio, potete sempre visitare il loculo 78-D.”

Mi sono trasferita in un appartamento al quinto piano, vista porto, in una cittadina dove nessuno conosceva il mio nome. Là, sono diventata Ada. Solo Ada. Ho preso lezioni di tango con un ex pugile argentino e cucinato dolci per il vicinato. Nessuno mi ha mai chiesto se avessi nipoti. Ero la signora elegante che sapeva ascoltare, ma anche dire no con grazia.

Mi sono fatta nuovi amici: una poetessa di ottantacinque anni che non aveva mai pubblicato nulla, un fioraio vedovo che parlava con le sue rose, e un ragazzino di dieci anni che mi leggeva Italo Calvino ad alta voce perché odiava il calcio.