Io e Antonio ci siamo sposati giovani. Troppo giovani, forse. Io avevo diciannove anni, lui ventuno. La nostra era una di quelle storie che partono di corsa, con i cuori in fiamme e la testa piena di “ce la faremo insieme”. Vivevamo in affitto a Brindisi, stringevamo i denti per ogni bolletta, ma ridevamo tanto, sognavamo di comprare un’auto usata, di crescere nostro figlio al mare, con la sabbia tra i piedi e il vento tra i capelli.
Poi è nato Andrea.
La nascita di un figlio è un’esplosione. Ti cambia il corpo, la mente, i ritmi, le notti, il senso del tempo. Il mio piccolo era bellissimo e fragile, e io ero spaventata da tutto. Tornare a casa dall’ospedale è stato come entrare in un’altra dimensione: il dolore del parto ancora addosso, le gambe molli, la stanchezza che non si descrive. Il divano diventato rifugio, il letto una salita impossibile.
Il giorno dopo, Antonio mi guarda e dice:
— Domani volo in Tunisia.
Credevo fosse uno scherzo. Invece era tutto vero: aveva accettato un’offerta last minute, “una cosa tra colleghi”, diceva. “Una settimana di mare, meritata. Tu e il piccolo state qui tranquille, mica ve ne accorgete se manco qualche giorno.”
No, certo. Non me ne accorgo.
Mentre cercavo di reggere un neonato che piange ogni due ore. Mentre sentivo il mio corpo tirato, gonfio, dolorante. Mentre mi chiedevo come si fa a essere madre, quando dentro hai solo vuoto e paura.
Non ho protestato. La voce non mi usciva.
Ha fatto la valigia, ha preso il passaporto, ha baciato Andrea sulla fronte senza nemmeno guardarlo in faccia. E se n’è andato.
Mi ha mandato foto. Cocktail. Spiagge. Un tatuaggio temporaneo. Una scritta “Freedom” sul braccio. Nessuna parola per me. Nessuna domanda su nostro figlio. Nessun “come stai?”.
La notte successiva ho guardato quel posto vuoto sul divano. Il posto dove avrei voluto vederlo seduto, magari anche solo per un’ora. Con gli occhi rossi come i miei. Con la faccia stanca. Con una mano tesa.
Invece c’era solo il vuoto. E il pianto di Andrea, come colonna sonora.
Mia madre, quando è venuta a portarmi del brodo, ha detto:
— Sii grata. Il mio, il giorno che sono tornata a casa dopo averti partorita, è uscito a bere e non è rientrato per due giorni.
Un’amica, al telefono:
— Pensa che io sono tornata a casa da sola, con le valigie e il bambino. Lui era in vacanza in Spagna. Non sei l’unica.
Ma io non volevo sentirmi “non l’unica”. Non volevo confronti al ribasso. Volevo sentirmi amata. Sostenuta. Almeno vista.
E in quel momento ho capito che c’era una sola persona su cui potevo contare: me stessa.
Non ho mandato messaggi ad Antonio. Non ho chiesto nulla. Ho preso Andrea in braccio, mi sono seduta sul nostro divano vuoto e ho promesso che quel vuoto l’avrei riempito io. Non con rabbia, ma con forza. Con amore. Con presenza.
Quando Antonio è tornato, abbronzato e rilassato, mi ha trovata cambiata. Non ero più la ragazza che piangeva in silenzio.
E lui ha riso, con leggerezza, e ha detto:
— Dai, tutto a posto? Te l’avevo detto che ce l’avresti fatta.
Io ho solo sorriso.
Aveva ragione. Ce l’avevo fatta. Ma da sola.