Abbiamo condiviso trentatré inverni, primavere, estati e autunni. Una vita vissuta a due, fianco a fianco, nella certezza — o meglio, nell’illusione — che niente e nessuno avrebbe mai potuto dividerci. Mi chiamo Anna, ho sessant’anni. Mio marito, Giulio, ne ha sessantasei. Fino a poco tempo fa, avrei messo la mano sul fuoco sul nostro legame. Invece, mi ritrovo ora a raccogliere i cocci di un matrimonio che si è frantumato in meno di sette giorni.
Siamo sempre stati una coppia solida, almeno così credevo. Una casa alle porte di Verona, due figli ormai adulti, una quotidianità fatta di abitudini silenziose e affetto tranquillo. Ma è bastato un viaggio, uno solo, per capovolgere tutto. Era dicembre, uno di quegli inverni dove la neve resta appiccicata ai vetri come i pensieri più ostinati. I nostri figli ci avevano lasciato il cane, come ogni Natale, per poi fuggire verso le loro vacanze. Giulio, all’improvviso, ha detto che sentiva il bisogno di tornare al suo paese d’origine, un piccolo borgo dove era cresciuto. “Solo qualche giorno,” ha detto. “Un salto tra vecchi amici.” Ho annuito, senza sospetti.
Quando è tornato, qualcosa in lui era cambiato. Non serviva che parlasse: i suoi occhi erano altrove, fermi su qualcosa che io non riuscivo a vedere. Tre giorni dopo, al tavolo della cucina, con la voce bassa e lo sguardo sfuggente, mi ha detto che voleva lasciarmi. Nient’altro. Solo quella frase, caduta come una pietra in uno stagno quieto.
Poi è venuta fuori la verità, goccia dopo goccia. Lì, in quel paesino dove i ricordi sembrano respirare, aveva rivisto Lucia, il suo primo amore. Era stata lei a cercarlo, sui social, con un messaggio semplice: “Sei ancora tu?”. Lui ha risposto. Poi l’ha incontrata. Poi ha passato giorni con lei, riscoprendo — così dice — una parte di sé che aveva dimenticato. Lucia è cambiata: oggi pratica yoga, guida incontri sulla meditazione, parla di energia e libertà. Con lei, Giulio si è sentito leggero, ha detto. Vivo. “Con te, mi sembra di affondare in sabbie mobili,” ha aggiunto. “Con lei, riesco a respirare.”
Ogni parola era una ferita, ogni spiegazione una lama che affondava più a fondo. Gli ho ricordato la nostra casa, i figli, le sere passate ad aspettarci, i problemi superati insieme. Ma Giulio era già lontano, come se si fosse risvegliato da un lungo sonno e volesse fuggire dalla vita che avevamo costruito.
Da allora vivo tra stanze che ora sembrano echi vuoti del passato. Ogni oggetto ha perso il suo colore, ogni silenzio pesa come piombo. Ma so che non posso fermarmi qui, tra i resti di ciò che è stato. C’è un dolore sordo che mi accompagna ogni giorno, ma anche una consapevolezza nuova: io esisto anche senza di lui. Il mio cuore ha sanguinato, ma pulsa ancora. E se oggi piango, domani — forse — riuscirò a respirare senza sentire il gelo di quell’addio.
Non so cosa mi riservi il futuro, ma so che voglio trovarlo. A modo mio. Un passo alla volta, con dignità e speranza. Perché anche dopo un crollo, si può imparare a ricostruirsi. Magari su nuove fondamenta. Magari, finalmente, per sé stessi.