La sera del diploma avrebbe dovuto rappresentare un brillante ponte che collegava l’infanzia e l’età adulta, eppure per Alice divenne soltanto un’altra porta chiusa con forza davanti al suo naso. L’aria nell’appartamento era densa e soffocante, impregnava di odori di vecchio cavolo e speranze infrante.
“Vai al ballo? Comprarti un vestito?” La voce di sua madre, Vera Ivanovna, era piatta come una tavola e fredda come una lama affilata. “È solo un frivolo passatempo. Spendere soldi per un abito che indosserai una sola volta e poi butterai via è pura leggerezza.”
Senza dire una parola, Alice fissava il tramonto che tingeva il cielo di un rosso intenso come il vino. Nella sua mente avevano preso forma immagini di quel vestito: un azzurro delicato, simile a un pezzetto di cielo cucito con il tessuto più leggero, capace di frusciare ad ogni minimo movimento.
“Prendi il diploma e subito a casa,” continuò sua madre con tono irremovibile e senza spazio a obiezioni, mentre le annodava il grembiule. “Devi poi portare Artem all’allenamento. Non vuole aspettare.”
“Ma mamma…” La voce di Alice si incrinò tradendo la sua emozione. “Come faccio a fare così? Tutti si saluteranno, scatteranno foto… Posso restare almeno fino all’inizio della serata? Prometto che poi me ne andrò in silenzio, senza farmi notare.”
Vera Ivanovna si voltò lentamente verso di lei. I suoi occhi, di un grigio profondo e inespressivo come un pozzo abbandonato, fissarono la figlia senza alcun calore, solo stanchezza rassegnata e irritazione costante.
“Ho detto tutto. Non costringermi a ripetermi.”
Per Alice, contraddire la madre significava praticamente condannarsi. Lo sapeva fin dall’infanzia. Fece un cenno silenzioso, inghiottendo quel nodo che le stringeva la gola. Una lacrima traditrice scese sulla guancia, bagnò il palmo della mano e lasciò una traccia salata.
La sala dell’assemblea scolastica era un turbine di risate, musica e grida di gioia. L’aria tremava di felicità e forte attesa. Le ragazze sfoggiavano abiti scintillanti, volteggiando leggere come farfalle, mentre i ragazzi cercavano di sembrare più maturi in giacche troppo rigide. Alice era seduta sul bordo della sedia, come un’ombra invisibile nel mezzo della festa. Il suo vecchio vestito di cotone sembrava un’impronta sgradevole in quel mare di esultanza. Notava gli sguardi di compassione o curiosità rivolti a lei, percependo ognuno come una spina dolorosa.
Appena consegnarono i tanto agognati diplomi rossi, senza attendere il discorso del preside, Alice si precipitò verso l’uscita, stringendo il certificato al petto come uno scudo. Il suo cuore pareva spezzarsi in mille pezzi. Corse per strada senza guardare dove metteva i piedi, e finalmente le sue lacrime esplosero in singhiozzi profondi, amari e disperati. Il duro selciato della città era implacabile con i suoi stivali consumati. In quella precisa istanza comprese con una lucidità cristallina e crudele una verità: sua madre non l’amava. Mai l’aveva amata davvero.
Questa consapevolezza l’aveva accompagnata sin da quando era capace di prendere coscienza di sé, diventando per lei tanto essenziale quanto il respiro. Vera Ivanovna raramente parlava con lei, preferendo impartire ordini. Le sue carezze erano sporadiche e sempre funzionali: aggiustare un colletto, sistemare un vestito. Mai un sorriso affettuoso, un bacio tenero alla buona notte o un abbraccio consolatorio. Ogni minima infrazione, parola fuori posto o bicchiere rotto causava una punizione brusca e glaciale: un boicottaggio totale che faceva sparire Alice dall’attenzione materna come se non fosse mai esistita. Questi silenzi punitivi duravano settimane, a volte mesi. Un’occasione si era protratta per ben due mesi senza Alice riuscire a ricordare il motivo, come se la sua mente avesse cancellato quel dolore per non perdere la ragione.
Con tutta la sua forza, Alice si impegnava per essere buona: studiava con eccellenza, ottenendo perlopiù voti massimi. Puliva i pavimenti, lavava, stirava, senza mai lamentarsi. Sognava che un giorno sua madre vedesse i suoi sforzi, le sorridesse, accarezzandola e dicendo: “Brava, figlia mia.” Ma nulla di tutto questo accadeva. Vera Ivanovna trovava sempre qualcosa da criticare, un motivo per rimproverare e scatenare un altro giro di silenzio ostile.
- Prima della sua nascita, i genitori avevano faticato molto per avere figli, affrontando numerosi medici e cure inutili.
- Quando le speranze si stavano esaurendo, Alice nacque come un’improvvisa risposta inattesa.
- Nonostante l’attesa, la bambina percepiva il gelo della mancata accoglienza della madre.
Il pensiero ricorrente di Alice era questo: “Perché, se tanto mi aspettavano, non hanno mostrato felicità alla mia nascita? Perché sento così freddo? Papà è gentile ma distante, quasi come se gli fossi d’intralcio. Solo Artem è amato incondizionatamente in famiglia.”
Con l’arrivo del fratello, la sua infanzia già infelice finì definitivamente, all’età di otto anni. In quell’istante, la madre sembrò dimenticare la giovane età della figlia e le impose il carico dell’intera casa: pulizie, spese, lavaggi e stirature delle bende, la cura del fratello. In più, il rendimento scolastico doveva essere impeccabile: un quattro era una catastrofe.
Quando Artem crebbe, Alice lo portava all’asilo, poi a scuola e alle attività. A questi compiti si aggiunse la cucina: ogni sera il problema era preparare la cena. Con dedizione cercava ricette per sorprendere e rallegrare, ma mai ricevette un semplice “grazie.”
Intorno ai diciassette anni, Alice maturò una convinzione ferrea: nella sua famiglia non era altro che una serva. Gratuita, polifunzionale e obbligata, non necessaria a nessun altro scopo né per la madre né per il padre.
Punto cruciale: “Dopo la scuola scappo lontano. Mi iscriverò all’università. Solo così capiranno che vivere senza di me è impossibile.”
Quella sera, dopo aver riportato il fratello dalla palestra, Alice raccolse il coraggio e rivelò i suoi piani durante la cena.
- Annunciò l’intenzione di iscriversi all’università di Voronež, facoltà di filologia.
- Sua madre reagì con freddezza, mettendo in discussione la validità delle sue scelte.
- Il padre propose di aiutare con Artem, ma la madre scoppiò furiosa, accusando Alice di essere una mantenuta.
Quel confronto acceso fece crollare il fragile equilibrio di Alice, che, sconvolta dalle accuse, abbandonò l’appartamento correndo per strada, scappando dalla casa che improvvisamente le sembrava estranea e ostile. I lampioni allungavano ombre brutte, mentre nella sua testa rimbombava una sola parola: “Estranea… estranea… estranea…”
Frenando per riprendere fiato, le venne un pensiero: andare da quella persona che l’aveva sempre accolta con affetto — sua nonna.
“Nonna,” sospirò quando la porta si aprì, rivelando una donna anziana ma ancora vigorosa, con occhi pieni di saggezza e gentilezza.
Anna Vasil’evna la accolse senza una parola, la fece sedere e le offrì una tazza di tè, ascoltando con pazienza il racconto frammentario e triste di Alice.
“Non pensavo di dover vedere questo giorno, piccola mia, ma Vera, per quanto terribile, ha detto la verità: sei figlia solo di mio figlio, il tuo papà.”
La spiegazione emerse così: la madre biologica era una studentessa giovane, bella e volubile, che aveva avuto una relazione con il padre. Quando rimase incinta e sperava di diventare sua moglie, lui rifiutò, offrendo solo sostegno economico, ma non una famiglia. Lei minacciò di abbandonare il bambino, ma il padre volle prendersi cura di lei e di Alice, consegnando la bambina alla madre adottiva, Vera. La nonna aveva proposto di crescerla lei, ma la madre biologica aveva rifiutato per orgoglio e paura delle voci in paese.
Con la nascita di Artem, Alice aveva assunto il ruolo di aiutante, completando questo quadro familiare travagliato.
Per quanto riguarda la madre biologica, Anna non ne aveva notizie precise: era sparita, voleva iniziare una nuova vita, e non si era mai manifestata.
La nonna incoraggiò Alice a considerare Vera come madre solo per la crescita e l’educazione ricevute, e a riconoscere l’importanza del padre e del fratello che l’amavano davvero.
“Adesso è il tuo momento,” le disse, “e se vorrai studiare all’università, io ti sosterrò con i risparmi che ho. Non saranno molti, ma basteranno per una stanza e le necessità a Voronež. Se troverai un dormitorio, sarà perfetto. Non perdere mai la speranza; meriti una vita piena di luce.”
Alice chiese allora di poter andare a vivere dalla nonna subito, perché non era più in grado di tornare a casa.
— “Certo, la tua stanza ti aspetta sempre. Potrai studiare in pace.”
Rifletté sull’idea di cercare la madre biologica, ma la nonna la dissuase, suggerendo che forse era meglio non riaprire vecchie ferite e accettare la famiglia che aveva.
“Forse hai ragione,” ammise Alice stringendosi al calore della spalla della nonna e asciugandosi le lacrime. “In effetti, tu sei ciò che per me conta di più.”
“Non solo io, tesoro: anche tuo padre e tuo fratello. Ti amano veramente. Tutto si sistemerà, fai ciò che devi e lascialo andare.”
Passarono gli anni e Alice si iscrisse all’università, mantenendo un forte supporto nei confronti della nonna e, di nascosto, anche del padre. Vera Ivanovna, invece, non perdonò mai la fuga e il cosiddetto tradimento.
Dopo la laurea, Alice fu assegnata a un lavoro lontano nella parte estrema del paese, dove costruì una vita solida, incontrò suo marito e mise al mondo due figli, un maschio e una femmina. Finalmente ebbe un rifugio di affetto e calore, assenti nell’infanzia.
Non era tornata nel paese natale per oltre vent’anni, salvo per il funerale della nonna, che lasciò in eredità a lei la vecchia casa, carica dei ricordi di sicurezza e infanzia.
Questo lascito scatenò l’ira di Vera Ivanovna, ma suo marito, pur pacato, difese con fermezza Alice, esprimendo orgoglio per la figlia.
Alice e suo marito decisero di non entrare in possesso dell’eredità, preferendo lasciar andare quel capitolo doloroso.
Alla morte improvvisa del padre, Artem ereditò ufficialmente la casa della nonna e la vendette, sorprendendo Alice con una visita imprevista alla sua nuova casa, annunciando la sua intenzione di vivere vicino a lei e alla famiglia.
Punti salienti dell’incontro con Artem:
- Desiderava un ambiente migliore, consigli per scegliere un quartiere e aiuto per l’acquisto di un appartamento.
- Confessò di voler allontanarsi dalla madre a causa del suo odio persistente.
- Alice manifestò preoccupazione per Vera, temendo che potesse stare male da sola.
- Artem rispose che ci sarebbero stati servizi sociali o che Vera avrebbe chiesto aiuto se necessario, interrompendo il tema.
Dopo due anni di convivenza pacifica con il fratello, Alice sentì il bisogno di tornare un’ultima volta nella città natale, spinta da una mistura di pietà e senso del dovere.
Di fronte alla casa di un tempo, con il cuore che batteva forte, suonò il campanello. Lì trovò una donna anziana, piegata, con i capelli bianchi e l’aria sgretolata dal tempo; la stessa donna severa di un tempo, ora ridotta a un’ombra spenta della sua ex forza.
“Ciao, mamma,” disse Alice con voce bassa e cauta.
La donna la guardò confusa e infine, con un sospiro disorientato, la lasciò entrare.
L’appartamento era pulito ma trascurato, vuoto e freddo. La madre chiese aspramente perché fosse tornata e cosa volesse.
“Sono qui per te, mamma.”
Quando Alice propose che lei vivesse con loro, accanto ai figli e a Artem, la donna esitò, poi mostrò una scintilla di speranza o forse paura negli occhi.
Artem era al lavoro e non poteva visitare la madre, mentre la presenza di un futuro nipote portò un accenno di vita nella voce di Vera.
In quel momento di fragilità, la madre chiese perché Artem fosse andato via e se le mancasse qualcosa qui. Alice rispose dolcemente che anche i suoi figli desideravano conoscere la nonna.
Il tono della madre cambiò leggermente quando scoprì che Alice aveva due figli, e infine chiese perché avesse ricevuto il suo nome, scettica.
“Perché è un bel nome, e comunque tu sei la mia madre. Per me,” rispose Alice.
“Per me questa è la verità. Sei stata tu a crescermi, a insegnarmi tutto, a farmi lottare negli studi e a diventare forte. Senza di te non so chi sarei. Grazie per tutto, anche per le dure lezioni.”
La donna anziana ascoltò, e il suo cuore duro sembrò incrinarsi. Per la prima volta le lacrime le colarono dagli occhi un tempo freddi.
Fece un passo incerto, poi un altro e infine abbracciò Alice con un gesto imbarazzato, da vecchia, ma pieno di emozione.
“Perdonami, piccola mia… perdona questa vecchia stupida… tutta la vita… tutta la vita spesa in errori e rancore…” singhiozzò aggrappandosi alla spalla di Alice.
Alice rispose abbracciandola, sentendo svanire gli anni di dolore e rimpianto, dissolti insieme alle lacrime nell’aria gelida di quell’appartamento familiare e distante allo stesso tempo.
Vera Ivanovna trascorse i suoi ultimi anni lontano, in un clima più mite, vicino a figli e nipoti. Sebbene mai diventata una nonna affettuosa, imparò a sedersi in silenzio su una panchina, osservando i giochi dei nipoti, e talvolta un raro sorriso compariva sul suo volto. Per Alice, questo era sufficiente. Aveva sconfitto le tenebre del passato non con l’oblio, ma con il perdono: la sua conquista più grande.
Conclusione
La vicenda di Alice profonda e commovente racconta il peso di un’infanzia segnata dall’indifferenza e dal rigore, ma anche il potere di tenere fede a se stessi e alla speranza. Attraverso le difficoltà, la giovane donna ha trovato la forza di costruire una vita propria, arricchita da amore familiare autentico e riconciliazione emotiva. Questa storia ci ricorda come, anche tra le ombre più cupe, la luce del perdono può aprire la strada a un futuro migliore.