Il villaggio era ormai quasi disabitato. Dei diciotto casolari, solo due erano ancora abitati: in uno viveva la vecchia Varvara, nell’altro Stepan e sua moglie Anastasia. Non avevano figli, ma c’era il caprone Mitrich, tre capre, qualche gallina e un orto che coltivavano più per abitudine che per necessità. Tutto ciò di cui avevano bisogno veniva ormai consegnato con la macchina postale dal capoluogo.
Quel giorno, Anastasia Petrovna era andata nel bosco a cercare funghi. La fine di agosto si rivelava generosa: come se il bosco volesse ringraziarla per anni di silenziosa pazienza. Portava sulle spalle un vecchio cesto intrecciato e canticchiava piano una canzone dei suoi vent’anni. Per lei, il bosco era diventato un santuario, un rifugio dalla solitudine e dalla malinconia che da tempo si erano annidate dentro di lei.
Fu allora che udì un fruscio. Si fermò, tese l’orecchio… un pianto. Anzi, due voci. Due pianti.
Anastasia corse verso il suono. E lì, nella radura, accanto a un ceppo, vide una giacca. Dentro, due neonati. Nudi, fragili, ancora con il cordone ombelicale. Un maschietto e una femminuccia. Minuscoli.
Rimase immobile. Posò il cesto, si inginocchiò. Le lacrime le scesero spontanee.
— Mio Dio… — sussurrò, stringendo la bimba al petto — chi vi ha potuto abbandonare, angeli miei…
Li avvolse di nuovo nella giacca, li prese in braccio con delicatezza, anche se erano pesanti. E tornò a casa, attraversando il bosco come se lo conoscesse anche al buio.
Stepan era seduto in silenzio sulla veranda, una sigaretta tra le dita. Quando vide cosa portava Anastasia, aggrottò la fronte.
— Cos’è?
— Dei bambini, — rispose lei. — Li ho trovati nel bosco. Nella giacca. Piangevano. Un maschietto e una femmina.
Non disse nulla. Si alzò, aprì la porta. Sul tavolo c’era ancora il porridge del mattino, che tolse subito per scaldare del latte di capra.
— Nastja… lo sai che non possiamo…
— Lo so. Ma lasciarli lì… non potevo.
Pianse. Non per paura. Perché, a sessant’anni, era accaduto un miracolo. Spaventoso, inaspettato, ma reale.
Il giorno dopo andarono da Galja, al consiglio comunale. Lei capì subito. Si tolse gli occhiali, si massaggiò la radice del naso.
— Li avete trovati, quindi… Non siete né i primi né gli ultimi, Nastja. Vi aiuterò. Li registreremo come “ritrovati”, sistemeremo tutto senza troppo rumore. Ma sapete bene — questo non è un paese, qui il medico viene una volta al mese.
Anastasia annuì. Lo sapeva. Ma il cuore le si spezzava in due.
I bambini crebbero con loro. Nastja si alzava di notte, li nutriva, cantava ninne nanne. Stepan portava acqua, cambiava i pannolini, lui che nemmeno lavava volentieri la capra. I bambini lo chiamavano “gh-gh” — era così che ridevano le prime volte.
Quando compirono sei anni, arrivò una lettera dall’orfanotrofio. Dovevano portarli in città per l’iscrizione scolastica.
Preparerono dei fagotti. Nastja ci mise camicie cucite a mano, calze di lana e mele secche. Si abbracciarono davanti alla porta. I bambini piangevano, si aggrappavano.
— Nonna, non lasciarci! — disse Macar.
— Torniamo presto, vero? — chiese Darja.
Anastasia non riuscì a rispondere. Solo annuì, con le lacrime che le rigavano il volto.