Un Addio Silenzioso che Risuona più Forte di un Urlo

La porta si aprì senza un colpo, con quella spudorata disinvoltura che rappresentava la sua cifra distintiva. Entrò nel mio spazio vitale come se stesse varcando la soglia del proprio guardaroba: indifferente, abituato, con un’attesa silenziosa che il mondo si adattasse immediatamente al suo passo.

«Ho bisogno della tua firma», tagliò il silenzio della mia piccola stanza d’affitto la voce bassa e autoritaria di Gleb, che gettò una folta cartella di pelle sul tavolo ingombro di miei schizzi e di una tazza con gli ultimi resti di una tisana. L’aroma di menta e melissa si mescolò all’odore pungente e inappropriato del suo costoso profumo.

Si comportava come se fossero passate poche ore, non sei mesi, da quando le sue dita fredde e distaccate mi avevano consegnato un biglietto di sola andata dalla sua vita lussuosa e vuota alla mia ignota esistenza. Come se non fosse esistita la sua ventenne sfrontata e le mie notti a piangere nel letto in quella stessa “tana”, come avrebbe chiamato adesso quel luogo.

«Ciao, Gleb.»

La mia voce fu calma, vellutata e priva di ogni sentimento. Non distassi lo sguardo dalla finestra, dove il sole di novembre tramontava piano tingendo di rame fuso i muri di mattoni della casa vicina. Il cucchiaino nella tazza roteava lento, ipnotico, come se la sua presenza fosse solo una piccola nota stonata nella sinfonia della mia nuova mattina.

«Già, ciao. Non sei contenta?» fece con un sospiro sprezzante, scrutando ogni dettaglio delle pareti con occhio severo e giudicante. Il sottile davanzale che mi serviva da scrivania, stipato di libri di architettura e design finalmente acquistati; il tappeto vintage a buon prezzo preso al mercatino delle pulci; il mio taccuino ad acquerello con bozzetti sparsi. Ogni suo impulso nervoso urlava disgusto, come confrontasse quell’ambiente raccolto e vitale con i suoi spazi freddi e impersonali, dove ogni vaso era sempre al suo posto immutabile.

«Riguarda un vecchio prestito», proseguì scandendo le parole. «L’avvocato ha insistito: senza la tua autoritativa firma non si può fare nulla. Ho dovuto interrompere il lavoro.

«Avresti potuto mandare un corriere», osservai voltandomi verso di lui. «Oppure il tuo assistente. Avresti risparmiato tempo.»

«Ho deciso di venire di persona», rispose con un sorriso piatto e inespressivo. «Così mi assicuro che non sei sparita del tutto. Dopotutto, sono responsabile di te.»

Riflessione importante: L’espressione “sono responsabile di te” mi colpì come anni prima, ma non più con la vergogna e il senso del dovere, bensì con un gelo di disprezzo. Era la sua consueta manipolazione d’élite, che voleva incatenarmi a lui per sempre, ringraziandolo per non avermi scaraventata fuori in accappatoio ma concedendomi la “grazia” di raccogliere le mie cose.

Mi alzai lentamente dallo sgabello. Il mio abito nero, semplice e perfettamente sagomato, avvolgeva dolcemente una silhouette che nei sei mesi precedenti aveva perso la sua forma indefinita e sfocata dal dolore, trasformandosi in un corpo elegante e raccolto. Presi una penna dal tavolo: un regalo prezioso e pesante fatto a me stessa per celebrare il primo progetto di successo.

«Dove firmo?» chiesi fissandolo con uno sguardo diretto e completamente impassibile.

In quel momento Gleb si voltò verso di me totalmente e restò immobile. Quello sguardo, che prima scivolava su di me con indifferenza, improvvisamente si posò su qualcosa di inaspettato e rimase catturato. Salendo lentamente dai miei tacchi, scorse le gambe snelle, la vita sottile, il mento sollevato con fermezza. Scrutò il mio viso, finalmente privo del pallore di notti insonni e delle rughe dell’offesa radicata.

Non vide la Svetlana che aveva lasciato. Neppure quella comoda, coperta polverosa in un maglione informe. Davanti a lui si ergeva una sconosciuta: calma, concentrata e, con orrore tardivo, bellissima. Una bellezza che nasceva dall’interno, alimentata da nuova dignità e da una scintilla di fuoco accesa nel profondo dell’anima.

«Tu…» deglutì strozzando la parola, con la voce che si fece roca. «Cosa ti è successo? Stai male? Hai perso troppo peso.»

«Ho iniziato a respirare a pieni polmoni, Gleb. A vivere. Per me stessa. Cambia incredibilmente una persona.»

Si mosse verso di me, poi un altro passo, quasi attratto da un magnete invisibile. Nei suoi occhi, di solito freddi e sicuri, balzarono ampiezza di panico e puro stupore animale. Poi, un lampo di possessività febbrile, come se avesse scoperto con sorpresa che la spazzatura scartata era in realtà un pezzo raro e prezioso, il cui valore era improvvisamente volato alle stelle.

«Sveta…» sussurrò quasi umanamente, la mano curata e perfettamente manicuresi tese a sfiorare la mia spalla per verificarne la realtà, accarezzare il tessuto di seta del vestito e la pelle, che un tempo era appartenuta a lui.

Feci un passo indietro, giusto uno, sufficiente a lasciare vuoto lo spazio fra il suo tocco e me.

«Non farlo.»

La sua mano rimase sospesa, impacciata e inutile. I suoi occhi cercavano nei miei uno spiraglio della precedente insicurezza, una debolezza, compassione. Passò il suo sguardo lungo la mia figura, poi per la prima volta vide non povertà, ma stile; non disordine, ma creatività. Con allarmante chiarezza comprese di aver perso molto più di una moglie comoda e silenziosa: aveva perso un patrimonio prezioso, multilaterale e brillante che, per incoscienza, aveva ignorato.

«Sono stato cieco! Un idiota!» gridò con voce strozzata, senza rimorso, ma carica di rabbia per aver puntato sulla cavalla sbagliata e visto la propria favorita perdere. «Torna! Subito! Tutto si può sistemare!»

Non era un grido del cuore, ma un ordine. Un disperato tentativo di annullare una mossa perdente.

Io presi la cartella con calma glaciale, sfogliai qualche pagina fino a trovare l’adesivo e firmai con un tratto largo e deciso, diverso da quello esitante messo anni prima sul contratto di matrimonio.

«Non c’è bisogno di cambiare nulla, Gleb. È già tutto cambiato.»

Gli porgevo i documenti, ma non li prese. Il suo volto passava da confusione a furia: l’ira di chi è stato interrotto e non può giocare la sua mossa vincente.

«Che vuol dire “troppo tardi”? Sei mia moglie, Svetlana!» disse con forza come per convincere prima di tutto se stesso.

«Ex moglie» correggevo dolcemente, appoggiando la cartella sul bordo del tavolo. «Siamo divorziati da quasi quattro mesi. L’avvocato che ti ha mandato qui te l’ha detto.»

«È solo un pezzo di carta!» esplose, il volto distorto. «Dieci anni! Dieci interi anni! Pensi che si cancellino con un tratto di penna in tribunale?»

Passò a camminare nella piccola cucina, la sua figura massiccia sembrava fuori posto e ingombrante in quel luogo. Il rumore dei suoi stivali di pelle di coccodrillo sul pavimento segnava una derisione verso tutta la situazione.

«Chi è lui?» espirò fermandosi davanti a me, gli occhi strizzati. «Chi ti ha lavato il cervello così bene? Tu da sola non saresti mai arrivata a questa trasformazione… Sei sempre stata timida.»

La solita litania del passato, dove io ero la “carina sciocca”, incapace di pensare in autonomia. Il suo progetto personale fuori controllo.

«Sono io, Gleb. Mi sono svegliata improvvisamente e ho ricordato che ho non solo un cuore che hai spezzato, ma anche un cervello. E ho cominciato ad usarlo. È liberatorio.»

«Qui, nella tua topaia?» indicò con disprezzo la stanza. «Questa chiami libertà? Vivere in una baracca, indebitarsi? Sveta, riprenditi! Quella stupida del centro estetico non significava niente! Una sciocchezza passeggera. Posso perdonarti tutto. La tua stupidità, il tradimento… Solo fai le valigie e torna a casa. Subito.»

Parlava di tradimento con tale certezza come se l’avesse visto con i suoi occhi. Per lui, la semplice idea che potessi appartenere a qualcun altro era già un fatto che gli dava diritto a rabbia e “perdono”.

In quel momento, sullo schermo del mio telefono sul tavolo, lampeggiò una notifica: un messaggio da Mark Voronov. Gleb guardò istintivamente il dispositivo, abituale modo di controllare i miei contatti.

La sua faccia prima si stese, poi lentamente si irrigidì in una maschera di silenziosa sorpresa e shock. Il sangue gli lasciò il viso, lasciando macchie sgradevoli sulle guance.

«Voronov?» sibilò sottovoce, voce tagliente come una lama. «Mark Voronov? Il direttore generale di “Vector”? Il tuo… capo?»

Presi il telefono senza nasconderlo, lo infilai in tasca senza distogliere gli occhi da lui. Non avevo alcuna intenzione di spiegare o giustificarmi.

«Stai dormendo con lui?» il suo sussurro era pieno di veleno. «Hai deciso di fare carriera in fretta, a letto? Lo sapevo che dentro di te c’era quella stronza! L’ho sempre sospettato!»

La voce gli si spezzava in grida acute. Cercava un punto debole per riprendere il controllo, per gettarmi ancora in ginocchio.

«Hai cinque secondi per girarti e uscire, Gleb», dissi con voce calma, ma ogni parola pesava come un macigno.

«E poi cosa?» rise finto. «Chiamerai il tuo nuovo papà? Pensi che verrà a salvarti sul cavallo bianco? Ti scaricherà come un giocattolo rotto quando si stancherà! Senza di me non sei NIENTE, Svetlana! Capisci? Niente! Eri il mio comodo zerbino, ora sei il suo!»

Lo guardai in silenzio. Prima queste parole avrebbero distrutto il mio mondo. Avrei pianto, urlato, supplicato, umiliata per farmi credere. Ora aspettavo soltanto. Il mio silenzio, la totale calma glaciale erano peggiori di ogni isteria: lo spiazzavano e gli toglievano ogni punto d’appoggio. Era come colpire l’acqua.

«Tornerai da me», disse alla fine prendendo con forza la preziosa cartella dal tavolo. «Quando lui ti butterà via come uno straccio usato. E sai una cosa? Non ti accetterò. Non ti aprirò nemmeno la porta.»

La porta sbatté con un fragore tale da far tremare i vetri delle finestre.

Rimasi immobile, ascoltando i suoi passi pesanti e furiosi allontanarsi lungo il corridoio. Poi il rombo del motore della sua jeep che partiva con uno stridio di gomme.

Solo allora respirai a fondo. Un tremito mai concesso davanti a lui mi attraversò le mani: non era paura, ma adrenalina. Mi avvicinai lentamente alla finestra. In strada, il fumo delle gomme lasciate indietro segnava la sua fuga nel suo mondo, ora incrinato.

Presi il telefono: le mie dita non tremavano. Chiamai.

«Mark, ciao. Sì, è stato qui… No, tutto bene. Assolutamente. Ti aspetto stasera. Sì… anch’io.»


La sera Mark arrivò con le mani piene: da una parte un contenitore con la mia cheesecake preferita della piccola pasticceria in centro, dall’altra un grande mazzo di peonie bianche e rosa. Non incominciò a interrogarmi né chiedere spiegazioni. Mi abbracciò forte e sicuro e io affondai la faccia nel suo vecchio maglione, segnato dal tempo, che sapeva di aria fresca e calore. La tensione del giorno cominciò a sciogliersi come acqua al ritiro della marea.

Ci eravamo conosciuti al colloquio, dove lui prese personalmente le selezioni per il ruolo di art director di un nuovo progetto ambizioso. Non guardò il mio curriculum vuoto da dieci anni, ma guardò me, ponendo domande fuori dai libri, dalla vita vera: sul senso, sulla bellezza, sulle passioni. Nei miei occhi ancora lucidi vide non una moglie disperata abbandonata, ma una scintilla ardente di talento e ambizione da risvegliare. La alimentò, offrì un’opportunità che afferrai con tutte le forze.

La nostra storia d’amore nacque lontano dal letto, cresciuta tra lunghe serate di lavoro, caffè freddo, dibattiti creativi, complicità silenziosa e nella sua fiducia. Era più forte di ogni barriera e più curativa di ogni medicina.

«Sveta, devo dirti una cosa», pose la forchetta con un pezzetto di cheesecake e il suo volto si fece serio. «Oggi Gleb è venuto in ufficio da me.»

Il respiro mi si bloccò, gelando il te caldo tra le mani.

«Quando? Cosa voleva?»

«Verso l’una, prima di venire da te», scosse la testa con qualche ruga triste agli occhi. «Veniva a “salvarti” da me.»

Non riuscivo a parlare.

«Mi ha dipinto vividamente come una ingenua sciocca facile preda del capo scaltro e manipolatore. Come astuta avventuriera in cerca di denaro e status altrui. Propose di “risolvere tutto da uomini”, senza testimoni. Disse che voleva “generosamente” riprenderti per risparmiarmi futuri problemi e perdite operative.»

Sentivo l’ultima sottile corda che ancora legava me al passato spezzarsi definitivamente. Non era più solo insulti: era sacrilegio. Era venuto dal mio uomo, il mio mondo, tentando di trasformarmi in merce scontata e guasta da restituire a chi non valeva niente.

«Ha promesso che rimpiangerai la tua scelta», concluse Mark, con voce fredda e decisa come acciaio. «E che troverà il modo per ‘aprirmi gli occhi’ sulla tua vera natura.»

Qualcosa dentro di me scattò, non rumorosamente, ma come il meccanismo di un fucile di precisione silenzioso. Il punto di non ritorno non solo superato, lasciato molto indietro. Basta mezze misure, superiorità silenziosa, tentativi di vivere semplicemente. Ha oltrepassato ogni limite possibile.

Guardai Mark, il suo volto calmo, intelligente e forte. Aspettava la mia reazione, la mia decisione. Lui ha sempre creduto in me.

«La sua compagnia ha un contratto attivo con Vector?» chiesi quasi sussurrando.

«Sì, grosso. In esclusiva per i componenti del nostro nuovo progetto. Scade tra due mesi. Ha priorità assoluta per il rinnovo automatico, non abbiamo valutato altre offerte.»

Annuii lentamente. Un piano chiaro, implacabile si formò nella mia mente in un lampo: non solo una mossa di risposta ma un mattone finale.

  1. Il prossimo venerdì all’evento aziendale annuale saranno presenti tutti i membri del consiglio, partner e investitori chiave.
  2. Gleb è stato invitato e sarà tra i primi.
  3. Proprio lì, davanti a tutti, annunceremo il nostro fidanzamento.

Mark mostrò sorpresa, poi un’ammirazione sincera, avendo intuito il mio piano in una frase. Non si trattava di difendersi, ma di una risposta totale e devastante. Di giocare sul suo campo, ma con le nostre regole.

«Ha cercato di umiliarmi come donna facile», continuai con voce forte, «ma io non sarò solo la tua futura moglie: sarò la moglie di chi governa la sua impresa. La padrona di casa dove lui dovrà presentarsi in segno di rispetto. Questo è soltanto l’inizio. Si aspettava che tornassi inginocchiata. Invece sarà lui a mettersi in fila per baciarmi la mano e congratularsi. E lo farà. Altrimenti perderà tutto.»


L’evento si svolse in un elegante ristorante panoramico all’ultimo piano del grattacielo più alto della città. La sala brillava della luce cristallina dei lampadari e del riflesso della città notturna sotto di noi, con le sue scintille di gioielli.

Indossavo un abito di seta color smeraldo scuro che abbracciava la figura delineandola perfettamente. Sentivo gli sguardi: curiosi, valutativi, ammirati. Non provocavano più disagio; anzi, mi davano forza.

Appena scorsi Gleb, che si trovava al bancone di fronte al vicepresidente finanziario, confidente e padrone del suo mondo con costume costoso, sorriso sicuro e gesti dominanti. Ancora non mi aveva notata.

Mano nella mano con Mark attraversammo la sala salutando. Gleb si voltò, come se percepisse l’energia nell’aria. Il suo sorriso si congelò e poi svanì lentamente in una maschera di disgusto familiare. Gli occhi sorvolarono me con l’abituale sguardo valutativo, poi si posero su Mark con un ghigno sprezzante: aveva immediatamente capito e immaginato male, che la cacciatrice aveva soltanto cambiato preda.

Con passo deciso si avvicinò; il suo volto tradiva il desiderio di una scenata pubblica, di umiliarmi davanti a Mark e di mostrare «chi sono veramente». Ma era troppo tardi.

Mark alzò una mano per richiamare l’attenzione. Il suono di un calice di cristallo fece eco.

Amici, colleghi, partner! Vorrei condividere con voi una gioia personale. Molti già conoscono Svetlana come la brillante art director del nostro progetto, il cui talento e dedizione sono senza limiti. Ma per me è molto di più. Ieri sera mi ha reso l’uomo più felice sulla terra accettando di diventare mia moglie.

Il pubblico si animò in un fragoroso applauso e congratulazioni che raggiunsero le mie mani con calici alzati. Io però guardavo solo lui. Gleb.

Il suo volto era bianco, quasi grigio, il sorriso scomparso rivelando una maschera patetica di confusione totale e terrore primordiale. La donna che considerava sua proprietà, la sua ombra, avrebbe presto portato il cognome dell’uomo responsabile del suo impero, diventando qualcosa di molto più di una moglie: la compagna legale di chi deteneva il controllo sulle sue fortune.

La gente ci circondava, stringeva mani, faceva complimenti. Con la coda dell’occhio vidi Gleb, isolato, abbandonato persino dal suo interlocutore poco prima. Un mondo che pochi minuti prima sembrava solido e inattaccabile crollava fragorosamente. Non era più un giocatore, bensì un pezzo sacrificabile. E lo capì tutto d’un tratto.

Quando l’onda di congratulazioni diminuì, si avvicinò. Il suo portamento era rigido, come se fosse invecchiato di vent’anni in pochi minuti.

«Congratulazioni, Mark Aleksandrovič», disse con voce strozzata e ruvida.

«Grazie, Gleb», rispose Mark con un cenno freddo e professionale. «Sono certo che, con i cambiamenti imminenti, troveremo nuovi modi di collaborare. Ormai siamo quasi parenti.»

L’ultima frase lo colpì come un colpo di grazia. Alzò gli occhi su di me, pieni di odio, disperazione, panico e una supplica ridicola.

«Dicevi che senza di te io non sono nessuno», sussurrai solo per lui. «E invece sei tu che non riesci a muovere un passo senza di me. Nemmeno uno.»

Non attesi risposta. Non ne aveva. Presi il braccio di Mark, girandomi e cominciando a camminare verso la mia vita nuova, luminosa e splendente. Lontano da lui. Per sempre.


Trascorsi due anni, i più intensi e felici della mia esistenza.

Seduti nella terrazza spaziosa della nostra casa in campagna, cullavo nostro figlio Matvej, robusto e con i miei occhi e il mento ostinato di Mark. Non ero più solo sua moglie, ma partner nella sua fiorente officina di architettura. Ero Svetlana Voronova: professionista, artista, madre, donna rispettata e ascoltata.

Raramente pensavo a Gleb. Il suo contratto con Vector non fu rinnovato. La notizia della sua visita a Mark e della sua “offerta” si diffuse presto nel mondo degli affari. Nessuno voleva più trattare con chi confondeva brutalmente affari e vendetta personale. La sua reputazione fu distrutta. Pochi a pochi si voltarono contro di lui: partner, clienti, creditori. Vendette casa, macchine costose e si indebitò tentando di salvare ciò che affondava.

Lo incontrai per caso in un supermercato. Lui riempiva scaffali con conserve, con uniforme blu economica. Era dimagrito, curvo, con uno sguardo spento. Mi vide e si bloccò con una lattina in mano, come incollato al pavimento sporco. In quegli occhi un attimo riaffiorò rabbia, subito spenta e sostituita da puro terrore animale: temeva una mia denuncia e di perdere anche quel lavoro. Si voltò rapidamente e fece finta di controllare la data di scadenza su una lattina.

Io passai oltre, senza odio, senza gioia. Né compassione. Null’altro che vuoto. Era un’ombra di un altro mondo.

La mia vera vittoria non fu quella sera al gala, né ora a vederlo umiliato. La mia vittoria è ogni giorno di questa vita: ogni mattina con il mio amato marito e figlio, ogni progetto realizzato, ogni tazza di tè nella mia cucina, nella mia casa. In un mondo dove sono amata e rispettata, dove decido chi essere.

Gleb aveva ragione su una cosa, quando in un attimo di rabbia disse di essere responsabile di me. Era responsabile per la mia infelicità, ma inconsapevolmente prese anche su di sé quella della mia felicità. Credendo di distruggere la mia vita buttandomi fuori, eliminò solo il suo ostacolo. L’unico reale impedimento al mio sogno. Ed è strano, ma sono pronta a ringraziarlo per questo.

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