Il caldo quel giorno era insopportabile, persino per la fine di maggio. Il sole ardeva con violenza, come un fornaio impazzito, bruciando la terra sotto di sé come se fosse ferro rovente. L’aria sopra l’asfalto tremolava, simile a un tegame caldo. La polvere sollevata da qualche veicolo sparuto fluttuava lentamente, posandosi sulle foglie dei pioppi che fiancheggiavano la strada che conduceva all’ospedale del distretto.
All’interno dell’edificio, protetto da spesse mura, la temperatura era leggermente più fresca, ma non per questo meno opprimente. L’atmosfera della sala operatoria era asettica, fresca e densa dell’odore pungente di antisettici, iodio e di qualcosa di indefinibile, ma immediatamente riconoscibile da ogni medico: l’aroma della battaglia per la vita.
Sul tavolo operatorio si stava eseguendo un’appendicectomia. Un intervento relativamente semplice, ma che richiede la massima concentrazione. Le mani di Artem Lebedev, chirurgo esperto, abituate a movimenti millimetrici e precisi, procedevano con sicurezza. Le sue dita si muovevano quasi autonomamente, guidate da un decennio di competenza, mentre il bisturi scivolava come una piuma sulla pelle.
La sala era avvolta in un silenzio interrotto solo dal ticchettio dell’orologio appeso al muro e dalle sporadiche istruzioni rivolte all’assistente.
— Emostasi, — disse Artem con voce calma, senza distogliere lo sguardo dal campo operatorio.
— Ricevuto, — rispose il giovane specializzando, sudato sotto il camice.
La calura non sembrava toccarlo. Era nel suo elemento, in quella sala dove il tempo pareva scorrere a un ritmo tutto suo. Ogni millimetro contava, e una sola distrazione poteva risultare fatale. Era immerso in uno stato di completa concentrazione, dove l’azione diventava la continuazione naturale del pensiero.
Improvvisamente, qualcuno bussò alla porta.
Prima timidamente, poi con decisione crescente, infine con tono quasi arrabbiato.
Artem non distolse lo sguardo dall’intervento.
«Non c’è nulla di più urgente di questa operazione», pensò immediatamente, consapevole che anche un minuto perso poteva incrementare i rischi di complicanze.
Ma le richieste continuarono.
— Artem Viktorovič! — risuonò la voce attraverso il vetro della porta. — È urgente, venite subito! La situazione è critica!
Guardò verso la porta; dall’altra parte c’era Olga Sergeevna, l’infermiera capo, una donna temprata dalle crisi, il cui viso scolpito nel granito tradiva un’avvisaglia di profondo allarme, quasi un presentimento di sventura.
— Tra quindici minuti, Olga, — rispose lui senza alzare la voce. — Sono in piena laparotomia.
— Artem, ogni secondo conta! — ribatté lei, visibilmente scossa. — È arrivata un’operatrice agricola dalla fattoria collettiva “Zarya”, incinta di tre gemelli. Ha iniziato il travaglio in ambulanza, ma il reparto maternità dista oltre quaranta chilometri. Non ce la fanno ad arrivare in tempo. L’hanno portata qui, l’unico centro medico vicino. Non abbiamo ginecologi né ostetrici. Solo tu. Il primario ha detto che sei l’unico che si ricorda qualcosa di ostetricia. Lascia tutto e corri!
Artem rimase immobile, mentre la mano che reggeva il bisturi tremò leggermente. Chiuse gli occhi per un attimo e nella mente affiorarono con forza le lezioni universitarie, il manuale di ostetricia, e quella terribile pagina sul prolasso uterino, letta allora come una favola di mostri. Ora quella “favola” lo stava coinvolgendo direttamente.
— Passatemi gli strumenti, — ordinò ritirandosi dal tavolo. — Finite sotto il mio controllo. Tornerò non appena possibile.
Scosse via il camice, tolse i guanti e corse giù per la scala come se fosse inseguito. Il cuore batteva in modo spasmodico, in un ritmo irregolare e frenetico. Non era preparato. Uno specialista oncologico, esperto in tumori complessi, non un ostetrico. Tuttavia, in quella struttura, in quel villaggio, in quel giorno, era l’unico capace di salvare quattro vite.
Il pronto soccorso lo accolse con un brusio, un misto di sudore, fieno appena tagliato e qualcosa di primordiale: la paura. Su una barella giaceva una giovane donna, non più di vent’anni, con un volto pallido come un lenzuolo, bagnato di sudore e lacrime. Le labbra violacee, un gemito sommesso, e le dita aggrappate disperatamente ai corrimano metallici come temesse di essere strappata via. I suoi pantaloni da lavoro e la giacca imbottita erano stati già tolti, lasciando soltanto una vecchia camicia da notte di cotone, risalita fino alle ginocchia, rivelando gambe tremanti.
Al suo fianco si agitava un’infermiera giovane e confusa, col volto arrossato dalla tensione.
— Artem Viktorovič! Meno male che sei arrivato! — esclamò, sollevando un sospiro di sollievo. — Le contrazioni sono iniziate e si stanno intensificando rapidamente! Non riesce a trattenerle!
Mentre indossava in fretta guanti sterili, la mente di Artem lavorava febbrilmente per recuperare conoscenze ostetriche quasi dimenticate. La situazione: una gravidanza trigemellare. Rischio elevato di complicazioni. Possibile debolezza del travaglio dopo il primo nato. Anomalie nella presentazione fetale. E la più grave minaccia: il rischio di prolasso uterino dovuto a eccessive spinte.
— Preparate l’anestesia epidurale? — gli chiese l’infermiera.
— Non c’è tempo, — rispose lui con tono teso, avvicinandosi. — Divaricate le gambe. Dasha, tieni duro, sono qui. Ora ti controllo.
La paziente annuì, mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare, gli occhi pieni di timore istintivo ancorati alle sue fattezze, come se fosse l’ultimo appiglio sulla Terra.
Con un gesto calmo, quasi automatico, Artem sollevò l’orlo della camicia da notte per valutare l’apertura e la posizione del bambino.
Rimase paralizzato.
Il tempo sembrò arrestarsi. Il rimbombo nelle orecchie cancellò ogni altro suono. Non riusciva più a distinguere il linoleum consumato, il volto pallido della partoriente o la giovane infermiera confusa. Non udì più grida, sirene o voci. Vide soltanto ciò che era fuoriuscito dalla cavità pelvica.
Non si trattava di una testa né di una gambetta.
Era un ansa intestinale.
Morbida, violacea, coperta di muco, fuoriusciva lentamente come se avesse vita propria. Era un prolasso uterino completo. L’organo, incapace di sopportare la pressione esercitata dalla gestazione trigemellare e da spinte probabilmente errate, si era letteralmente girato all’inverso, sporgendo all’esterno.
Ogni secondo di ritardo significava necrosi tissutale, infezione gangrenosa, sepsi mortale e inevitabile perdita di tutti e tre i bambini, oltre che della madre.
Artem si raddrizzò, trasformando il volto in una maschera di rigoroso autocontrollo. Dentro però, un nodo gelido gli serrava lo stomaco. Il sudore freddo gli imperlava la schiena. Non era pronto. Nessuno lo era. Ma lui era lì, e soltanto lui poteva agire.
«Non devi spingere!», ordinò con tono fermo ma pacato, abbastanza deciso da spegnere qualsiasi tentativo di contrazione spontanea. — Respira piano, costante. Sono qui con te.
Si rivolse all’infermiera:
- Corri subito in sala operatoria!
- Preparate tutto per un intervento d’urgenza a cielo aperto!
- Allerta tutto il mio team!
- L’anestesista venga immediatamente!
- Il pediatra accanto al tavolo operatorio, veloce!
L’infermiera precipitò via. Artem rimase solo con Dasha, stringendole la mano, che le serrò con una forza tale da far scricchiolare le dita.
— Dottore, — sussurrò lei. — Salvate i bambini… solo i bambini…
— Farò il possibile, — rispose con fermezza, fissandola negli occhi.
Non ricordava come trasportassero la barella lungo il corridoio. Solo immagini frammentarie riecheggiavano nella sua mente: volti preoccupati, il rumore delle rotelle sul pavimento, sguardi ansiosi delle infermiere e quel bisbiglio costante: «Dottore, salvate i bambini… solo i bambini…»
La sala operatoria, in cui cinque minuti prima stava rimuovendo un’appendicite, ora era un alveare di apprensione. La sua squadra, sebbene perplessa, era pronta e disciplinata. La paziente fu sistemata rapidamente sul tavolo, e l’anestesista iniziò a preparare il respiratore.
— Anestesia generale con intubazione, — comandò Artem con tono di comando mentre si lavava meticolosamente le mani fino ai gomiti. — Caso: gravidanza trigemellare con prolasso uterino completo. Piano d’azione: cesareo d’urgenza con riduzione manuale immediata dell’utero. Preparativi per incisione entro tre minuti.
Vide il volto dell’infermiera di sala diventare pallido. Il prolasso uterino era una rarità spaventosa, che la maggior parte dei medici aveva visto solo sui libri. Ora doveva affrontare un intervento mai eseguito prima.
Si avvicinò al tavolo. Lei era già sotto anestesia, con occhi chiusi e respiro regolare, meccanico. Non era più una ragazza spaventata, bensì un campo di battaglia.
— Incisione di Pfannenstiel, — annunciò con voce bassa e calma, trasmettendo tranquillità anche al team. Il bisturi tracciò un taglio preciso.
La frenesia del lavoro prese il sopravvento. Mani abili, appena immerse in un contesto completamente nuovo, agirono in modo automatico, rapido ed efficiente, senza sprechi di movimento. La memoria muscolare del chirurgo vinse la paura.
— Rottura delle membrane… Primo feto, femmina.
Estrasse il primo bambino, piccolo, bluastro, senza segni di vita. L’infermiera lo passò subito al pediatra che attendeva con apparecchiature di rianimazione.
— Secondo, maschio.
Il secondo urlò quasi subito, timido e debole, un grido di nuovo nato che avrebbe dovuto portare sollievo, ma che qui suggerì solo l’inizio della fase più critica.
— Terzo, femmina.
La terza nascitura era la più fragile e la portarono immediatamente alla ventilazione meccanica assistita.
Nel campo visivo restava solo l’utero rivolto all’esterno, simile a un grande grappolo violaceo sospeso a un peduncolo vascolare. Ogni secondo rappresentava ischemia e morte tissutale.
— Reposizione manuale, pronti a emorragia massiva, — avvertì Artem.
Prese l’utero tra le mani. La superficie era molle e fredda. Con cautela e una forza straordinaria, come raddrizzare un enorme calzino, iniziò a riposizionarlo correttamente. Era un’operazione minuziosa, non di potenza ma di estrema delicatezza e precisione. Un movimento sbagliato avrebbe compromesso irrimediabilmente l’organo.
Sudore gli imperlava la fronte, che una delle infermiere asciugò con un fazzoletto sterile. Il silenzio in sala era assoluto, rotto solo dai segnali monotoni delle macchine e dai respiri trattenuti del gruppo di lavoro.
Infine, con un ultimo gesto, l’utero rientrò con un lieve suono umido.
— Reposizione riuscita. Subito uterotonici!
Attraverso una flebo iniziò il flusso di farmaci per stimolare la contrazione dell’utero e fermare l’emorragia. Tutti trattennero il fiato. Era l’istante più delicato.
Passò un minuto. Dopo, un altro.
— Perdite ematiche nei limiti normali, — riferì l’assistente controllando i parametri. — L’utero si contrae.
Solo allora Artem poté distogliere lo sguardo dal campo operatorio e raddrizzarsi, sentendo lancinare la schiena per la fatica. Una stanchezza infinita lo attanagliava come un limone spremuto fino all’ultima goccia.
— Procediamo con la sutura, — disse a voce bassa.
Durante i punti finali, il pediatra si avvicinò.
— Artem Viktorovič… Le gemelline sono ancora deboli ma vive, lotteremo per loro. Il maschietto è robusto e già piange.
Artem annuì senza parole, uscendo dalla sala con mani tremanti mentre cercava nel taschino una sigaretta.
Si fermò a un finestrone nell’area medici, dove l’aria calda odorava di campagna e polvere. Lì, nella fattoria, la sua paziente aveva una casa, le mucche, forse un marito o i genitori, e ora l’attendevano tre bambini.
Accese la sigaretta, inspirando profondamente. Non aveva pensieri, solo l’immagine indelebile di quell’istante: lo sguardo sotto la camicia da notte che svelava qualcosa di agghiacciante, capace di bloccare l’animo anche a un chirurgo esperto. Non per paura, ma per consapevolezza professionale: in quella frazione di tempo, tutto dipendeva unicamente da lui.
Li aveva salvati. Tutti e quattro. Proprio quel giorno.
Spense la sigaretta e si avviò a lavarsi le mani. Lo attendeva un lungo percorso di cura per lei e i bambini, e il suo turno non era affatto finito.
Le ore successive si fusero in un flusso continuo di tensione. Artem rimase in ospedale, compilando i referti medici e chiamando ogni quarto d’ora il reparto pediatrico e la terapia intensiva, dove la neo-mamma era stata trasferita.
— Le gemelline sono ancora in ventilazione meccanica, ma stabili. Il maschietto prende il latte artificiale, — riferiva il pediatra. — Restiamo in attesa.
La paziente con l’appendicite si era già risvegliata dall’anestesia, sentendosi bene. Ironia della sorte: l’intervento pianificato era andato liscio, mentre la sfida fragile e rischiosa qui si giocava ancora sul filo del rasoio.
Al sorgere del giorno, Artem non resistette e si recò al reparto pediatrico. Dietro una vetrata, in incubatrici si trovavano due piccole gemelline, ricoperte di sensori, simili a minuscoli gattini arrossati e rugosi, ma con il petto che si alzava e abbassava regolarmente al ritmo dei macchinari. Vicino a loro, in un lettino tradizionale, dormiva avvolto in una coperta il maschietto.
— Sono combattenti, — disse l’infermiera di turno vedendolo. — Resistono.
Quando entrò nella stanza di Dasha, lei era sveglia, pallida e provata, ma negli occhi brillava una speranza timida e conquistata con sofferenza, diversa dalla paura primitiva di prima.
— Dottore… — la sua voce era un sussurro rauco — i miei bambini?..
— Sono vivi, — rispose brevemente Artem, avvicinandosi al letto. — Le due femminucce respirano ancora con il supporto della macchina, ma i medici stanno lottando per loro. Il maschietto è forte e già reclamava il cibo.
Le lacrime scesero silenziose sulle guance aride. Non singhiozzava, piangeva soltanto quieta, sollevata.
— Grazie… Ricordo… ho capito che qualcosa non andava… — pronunciò a fatica.
— Ha fatto bene a chiamare aiuto tempestivamente, — la interruppe Artem. — La parte più terribile è alle spalle. Ora si deve solo riposare e recuperare. Ci penseremo noi a loro.
Uscì dalla stanza con una stanchezza atroce che gli scendeva fin nelle ossa. Il turno era ufficialmente terminato, ma lui era rimasto.
Dopo dodici ore fu possibile staccare una delle gemelline dalla ventilazione assistita; il giorno seguente l’altra.
Al terzo giorno, prima del turno successivo, visitò di nuovo la stanza. Dasha sedeva su una poltrona. Le infermiere, violando qualche regola, le avevano portato tutti e tre i bambini: il maschietto tra le braccia e le due piccole rannicchiate sulle ginocchia, profondamente addormentate.
La stanza era inondata dalla calda luce serale, con un profumo lieve di latte, pulito sterile e l’aroma tenero dei neonati.
Dasha alzò gli occhi e sul viso si aprì un sorriso luminoso e infinitamente grato, cancellando in un attimo tutta la fatica e la tensione accumulata nei giorni precedenti.
— Artem Viktorovič, — sussurrò temendo di svegliare le piccole, — ti presento Ivan, Maschenka e Dashenka.
Si avvicinò e osservò quelle minuscole creature, per il cui salvataggio aveva vissuto ore di terrore e fatica. Dormivano, e quello era il risultato più importante di tutto quel lavoro.
— Sono bellissimi, — espirò con voce roca.
Uscì dall’ospedale, salì in macchina. Le mani non tremavano più. Guardava il sole calante che tingeva i campi di porpora, provando per la prima volta da tempo, non il burnout o la stanchezza, ma una limpida e acuta consapevolezza.
Sapeva di averli salvati. Non solo operati, ma realmente salvati. E lì, in ospedale, quei quattro erano vivi.
Avviò il motore e percorse lentamente la strada sterrata verso casa. Era soltanto un chirurgo provinciale. Ma quel giorno, finalmente, aveva chiara la ragione della sua presenza lì. E ciò gli bastava.
La sera, seduto sul portico di casa con una tazza di tè in mano, ricevette una chiamata.
— Artem Viktorovič, — disse la voce dell’infermiera. — Dasha vuole vederti. Ti ha fatto un regalo.
Sorrise e si alzò per cambiarsi.
Entrò nella stanza e lei gli porse tre piccoli braccialetti fatti a mano, fili bianchi con tre perline ciascuno.
— Sono per te, — spiegò delicatamente. — Per non dimenticarci. Per farti capire che non sei solo un medico. Sei un angelo.
Artem li raccolse con una lacrima agli occhi.
In quel momento capì che non esiste nulla di più importante che essere chi resta tra la vita e la morte; chi guarda la paura dritto negli occhi senza distogliere lo sguardo; chi, pur sapendo che le probabilità sono esigue, agisce con coraggio.
Uscì dall’ospedale. Il cielo era punteggiato di stelle, ciascuna sembrava brillare solo per lui.
Conclusione: Questa coinvolgente vicenda ci racconta quanto determinazione, competenza e umanità possano salvare vite anche nelle situazioni più disperate. Artem Lebedev, chirurgo di provincia, ha dimostrato che con coraggio e professionalità è possibile superare limiti apparentemente insormontabili e offrire una nuova speranza a chi combatte per esistere.