Quando Roma aveva tre anni, uno sconosciuto lo lasciò davanti ai cancelli di un orfanotrofio, tenendolo per mano fino all’ultimo istante, come a proteggerlo da un dolore inevitabile.
L’uomo non parlò mai con nessuno. Non lasciò documenti. Nessun nome, nessuna spiegazione. Solo una camicia ben stirata, un paio di scarpe lucide e uno sguardo lungo e triste verso il bambino prima di sparire nella nebbia del mattino.
Ora Roma ha trent’anni. La vita lo ha temprato: cresciuto tra turni di notte in fabbrica e studi serali di legge, ha costruito un’esistenza dignitosa ma piena di domande senza risposta.
Nessuna famiglia, nessuna fotografia d’infanzia, nessun compleanno da ricordare. Solo quel lampione — che nei suoi sogni torna spesso — e la sensazione di essere stato amato, anche se per poco.
Un giorno, durante una visita all’archivio municipale per aiutare un collega con una pratica, Roma nota per caso un registro scolorito di accessi ai servizi sociali. Una calligrafia nervosa, una firma quasi illeggibile, ma un dettaglio lo gela: la descrizione del bambino consegnato ventisette anni prima corrisponde esattamente a lui. Accanto, una nota: “Consegnato da un uomo presumibilmente parente. Capelli castani, ben vestito. Accento del sud.”
Da quel momento, Roma non riesce più a dormire.
Comincia a cercare, inizialmente nei quartieri vicini all’orfanotrofio. Poi espande il raggio: viaggia in piccole città, bussa a porte, mostra la vecchia fotografia di sé bambino scattata il giorno del suo ingresso, dove tiene in mano un peluche consunto.
Qualcuno ricorda. Un’anziana signora dice che sì, forse quell’uomo lavorava in una tipografia. Un altro racconta di uno strano inquilino che pagava sempre in contanti e sparì all’improvviso. Tessere sparse, frammenti.
Ma è un dettaglio apparentemente insignificante a indirizzarlo: il peluche che aveva in mano da bambino non era comune. Viene a sapere che era prodotto solo in una piccola fabbrica di giocattoli chiusa negli anni ‘90. Lì, Roma scopre una fotografia ingiallita di gruppo: operai in tuta blu davanti alla sede. In seconda fila, con un sorriso incerto, c’è un uomo con un naso lungo, affilato.
Il cuore di Roma accelera. Chiede nomi. Uno: Ettore Carbone.
Ettore, si scopre, è scomparso da venticinque anni. Ma un’ex collega, ormai vedova, lo ricorda bene: “Era una brava persona. Ma un giorno arrivò sconvolto, come impazzito. Parlava di una donna che aveva amato, di un figlio che non poteva tenere.”
Roma allora ripercorre la pista della donna. Nomi, vecchi documenti ospedalieri, lettere mai spedite. Ricostruisce la storia di un amore impossibile: Ettore, uomo sposato, aveva avuto una relazione con una ragazza molto più giovane, morta poco dopo il parto per una complicanza non curata. Il bambino — Roma — non aveva più nessuno. Ettore, sopraffatto dal rimorso e dalla paura, aveva scelto l’unica cosa che gli sembrava giusta: affidarlo all’orfanotrofio, senza rivelare nulla, convinto che non avrebbe potuto offrirgli una vita degna.
Alla fine, Roma riesce a trovare Ettore. Vive in un paesino del sud, cieco da alcuni anni, accudito da una nipote. Non parla quasi più. Ma quando Roma entra nella stanza e pronuncia il proprio nome, qualcosa negli occhi spenti dell’uomo si accende. Le labbra tremano. Una lacrima scivola sul volto rugoso.
— Ti ho portato via la madre — mormora Ettore. — Ma non potevo perderti anche a te.
Roma non dice nulla. Si siede accanto a lui. E per la prima volta, senza rancore, posa una mano sulla spalla dell’uomo che gli ha cambiato la vita.