Ogni pomeriggio, all’insaputa di tutti, la tata conduceva mio figlio in un vecchio stabile abbandonato, nascosto tra le rovine della periferia.

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Li seguii senza fare rumore, i passi attutiti sulla scala di pietra umida che portava al seminterrato. Una volta in fondo, rimasi senza parole: la stanza era avvolta da una luce calda, proveniente da piccole luci appese lungo le pareti.

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Tende coloratissime si muovevano leggere al passaggio dell’aria, mentre fili di ogni tonalità e un’elegante macchina da cucire scintillavano sul tavolo centrale. Hugo si girò di scatto, il volto teso.

«Mamma! Non è quello che sembra!»

Léa, con le guance arrossate e lo sguardo sfuggente, sussurrò dopo un attimo di esitazione:

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«Hugo voleva farti una sorpresa. Ha trovato quel diario in cui parlavi del tuo sogno di diventare stilista… Sapeva che avevi rinunciato per dedicarti alla tua professione.»

Hugo chinò il capo, stringendosi le mani. «Volevo restituirti qualcosa che avevi lasciato indietro. Ho chiesto a Léa di darmi una mano, e con i soldi messi da parte per il mio compleanno… ho comprato la macchina.»

Le parole mi si fermarono in gola. Le lacrime, invece, no. Quel desiderio che credevo sepolto nel tempo… mio figlio lo aveva riportato alla luce.

Lo abbracciai forte, lasciando che il pianto scorresse libero. «Grazie, amore mio. Non mi hai solo costruito un laboratorio… mi hai ridato un sogno che credevo svanito.»

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