Júlia si svegliò al solito fruscio, quella volta era ancora Dima, che armeggiava con il telefono, scrollando le notifiche della banca. Era lunedì mattina, le sette in punto, e lui già si preoccupava di conti e spese. I suoi sospiri perplessi e i tic sullo schermo riempivano la stanza in modo fastidioso.
«Hanno preso di nuovo qualche commissione», borbottò senza distogliere lo sguardo dal display.
Fuori, una pioggia grigia autunnale cadeva leggera. Júlia aveva appuntamenti importanti con tre fornitori: senza il suo intervento, molte attività in magazzino si sarebbero fermate. Come vice direttore logistico, lei era abituata a risolvere tutto rapidamente e senza inutili chiacchiere.
«Quale commissione stavolta?» domandò, avvolgendosi nel suo accappatoio di spugna.
«Qualcosa per la carta, o qualche altra sciocchezza. Quei banchieri trovano sempre qualcosa per spillarti soldi.»
In cucina, accese la costosa macchina da caffè italiana, un regalo per il suo compleanno: dopo dodici ore di lavoro al giorno, il caffè di qualità è un diritto sacrosanto.
Dima, in pigiama, sedeva a tavola, ancora immerso nell’app. Scuotendo la testa, continuava a guardare il telefono con aria cupa.
«Senti», iniziò senza alzare gli occhi, «apriamo un conto in comune. Così sarà più semplice fare i bonifici. Non dobbiamo più cercare numeri o inserire password ogni volta.»
Júlia rimase immobile, la tazzina in mano. Lentamente si girò verso di lui, lo stomaco si strinse in un nodo: quella era la premonizione di un litigio imminente.
«Cos’hai appena detto?»
«Apriamo un conto in comune, così è più comodo, no?»
«Lo vorresti, certo», replicò decisa, «forse vuoi anche intestarti casa e villa?»
Dima alzò finalmente lo sguardo, sorpreso.
«Di cosa stai parlando? Non è questo il punto.»
«Allora qual è?»
«Semplicemente comodità. Viviamo insieme da tre anni, siamo una famiglia.»
Júlia appoggiò la tazza e si sedette di fronte a lui, consapevole che stava per iniziare una discussione spiacevole, inevitabile.
Fin da bambina, i genitori di Júlia le avevano insegnato un solo principio: lavorare per il proprio denaro, non affidarsi mai a nessuno. Il padre, tornitore in fabbrica, si alzava alle cinque per affrontare il lungo viaggio verso il lavoro. La madre cuciva per dieci ore al giorno, sempre alla macchina da cucire. I soldi bastavano appena, calcolati al centesimo, ma mai hanno litigato per questo.
«Ricordalo sempre, figlia mia», le diceva la madre distribuendo lo stipendio in buste, «non dare soldi a nessuno senza averlo testato per anni.»
«E papà quanto ha dovuto dimostrare?»
«Da vent’anni porta a casa lo stipendio, se l’è meritato la mia fiducia.»
«E quanto ci vuole per guadagnarsela?»
«La vita lo mostrerà, ma sicuramente non meno di dieci anni.»
Júlia fu sempre brava a scuola e grazie a una borsa di studio riuscì a entrare all’università. Andò a lavorare fin dal terzo anno, impartendo ripetizioni e facendo la cameriera in un bar che accoglieva studenti. Dopo la laurea, divenne manager logistica. Era una vera ossessione per il lavoro: arrivava prima, tornava dopo qualcun altro e faceva gli straordinari.
Dopo due anni fu promossa e, in seguito, diventò vice direttore. A trent’anni gestiva un team di dodici persone.
La casa era stata acquistata a rate, con aiuto dei genitori per la caparra. Si trattava di un trilocale in una zona tranquilla, comodo e ben organizzato. Metà dello stipendio mensile veniva sempre messo da parte per i rimborsi anticipati.
La casetta in campagna, invece, era acquistata senza mutuo dopo quattro anni di risparmi: un piccolo rifugio con terreno e giardino, completamente suo.
A trentacinque anni era indipendente, lavorava molto ma manteneva uno stile di vita dignitoso: prodotti cosmetici di qualità, due vacanze all’anno, cena fuori due volte la settimana. Non era ricca, ma nemmeno indifesa.
Dima era comparso nella sua vita tre anni prima a una festa aziendale: manager delle vendite, simpatico e con aneddoti divertenti sui suoi clienti. Non era appariscente, ma genuino.
«Ho due figli dal matrimonio precedente», le disse al secondo appuntamento: «Artyom ha nove anni, Mása cinque. Se è un problema, meglio dirlo subito.»
Per fortuna, i bambini erano adorabili e ogni fine settimana venivano a stare da lei. Júlia preparava per loro crepes al formaggio, giocava con i giochi da tavolo e li portava al cinema. Pian piano si integrarono.
Un anno dopo, Dima si trasferì da lei. All’inizio tutto filava liscio: divideva le bollette, acquistava la spesa, li accompagnava in campagna. Lavorava con un amico in un’azienda IT, pianificando di lanciare una start-up.
«Serghei è un programmatore eccezionale», raccontava a cena, «io so vendere. In due anni guadagneremo bene.»
Júlia credeva nei suoi sogni, Dima aveva talento nel persuadere anche i clienti più difficili. I piani sembravano realistici.
Ma un anno fa tutto è crollato: Serghei lo ha tradito, prendendo tutto a suo nome, dai contratti agli arredi. Dima si trovò disoccupato.
«Com’è potuto succedere?» chiese lei incredula.
«Era l’azienda a suo nome, io ero solo un dipendente. Pensavo fossimo soci, ma ero solo un ingenuo.»
Júlia provò pietà per lui: tradire la fiducia è doloroso e umiliante.
«Troverai un altro lavoro», lo consolò, «hai esperienza e contatti.»
Dima cercò un impiego per un mese, poi fu assunto, ma con uno stipendio dimezzato.
«Solo temporaneamente», spiegò, «imparo il mestiere e poi chiederò un aumento.»
Intanto, accumulava debiti: auto a rate, telefono e computer in leasing, senza contare gli alimenti per gli ex coniugi.
«Teniamoci duro un po’, sistemerò tutto e poi starà a posto.»
Tuttavia, i debiti non diminuirono, e le spese passarono gradualmente a Júlia: lei faceva la spesa settimanale, pagava le cene e comprava i regali costosi ai bambini.
«Rimborserò tutto», assicurava Dima, «appena arriva l’aumento.»
Un anno passò senza un miglioramento e lui iniziò a proporre di unire i bilanci.
«Cosa intendi esattamente?» chiese Júlia fissandolo negli occhi.
«Comodità», disse lui irritato, «un conto condiviso per pagare casa e spesa.»
«E gli alimenti?»
«Anche quelli, sì. Perché è un problema?»
«Perché la manutenzione dei figli è un tuo obbligo, non il mio.»
Dima posò il telefono sulla tavola.
«Viviamo insieme da tre anni come una famiglia. Di cosa stiamo parlando?»
«Non è questione di meschinità, ma di conti semplici.»
«Quali conti?»
«Tu guadagni centomila, io duecentosettanta. Dai tuoi soldi paghi alimenti e debiti. Quanto resta? Trenta mila? E vuoi un conto comune.»
Dima arrossì visibilmente.
«È solo un momento difficile.»
«Lo dici da un anno.»
«Troverò un lavoro migliore, cambierà tutto.»
«E nel frattempo?»
«Siamo una famiglia, ci aiutiamo.»
Júlia si avvicinò.
«E in cosa dovresti aiutarmi?»
«Come? Vivo con te, mi prendo cura di te…»
«In modo concreto, cosa fai?»
Dima si imbarazzò.
«Aiuto nelle faccende domestiche, cucino a volte.»
«Le uova della domenica?»
«Non solo! Anche la pasta.»
«Grande aiuto. Cos’altro?»
«Supporto morale. Sono sempre al tuo fianco.»
«Capisco. Quindi mangi il mio cibo, vivi nella mia casa, spendi il mio denaro, e in cambio mi offri sostegno emotivo e uova la domenica?»
«Stai esagerando!»
«Sto solo chiamando le cose col loro nome. Dimmi sinceramente, quando hai pagato l’ultima volta un’intera cena al ristorante?»
Dima ci rifletté.
«Il mese scorso…»
«Anche allora l’ho pagata io, e prima, e tre mesi fa ancora.»
«Forse, ma non volentieri!»
«Come mai?»
«A volte dimentico il portafoglio o la carta non funziona.»
«La carta non funziona perché non hai più soldi. Non ne hai perché li usi per i debiti.»
«Ma devo pagarli!»
«È il tuo dovere, con i tuoi soldi, non con i miei.»
Dima si alzò e attraversò la cucina.
«Ci amiamo, siamo una coppia! Davvero il denaro conta di più?»
«Non è questione di soldi, ma di rispetto.»
«Quale rispetto?»
«Quello per ciò che guadagno. Per questa casa che è la mia casa. Per il diritto di dire no.»
«E se ti chiedessi aiuto in modo umano?»
«Chiedi sinceramente: “Júlia, dammi soldi per gli alimenti, li restituirò tra un mese”. Poi valuterò.»
«E se ti dicessi no?»
«Allora dico no. Ho il diritto.»
Dima tornò a sedersi, passandosi le mani sul viso.
«Sai cosa? Forse hai ragione. Forse sono diventato pigro.»
«Lo sei diventato.»
«Non per avidità, solo stanco della lotta. È stato più facile lasciare tutto a te.»
«Per me non è stato facile. Portare tutti questo peso sul mio petto è difficile.»
«Tutti?»
«Te e i tuoi figli. Vivono praticamente sulle mie spalle: cibo, attività, regali.»
«Ma sei stato tu a offrirti di aiutarli!»
«Lo feci credendo fosse reciproco.»
Dima rimase in silenzio. Poi chiese piano:
«Vuoi che me ne vada?»
Júlia rifletté.
«Voglio un uomo, non un parassita.»
«E se non volessi cambiare?»
«Allora vattene.»
«Così finisce tutto dopo tre anni?»
«Hai vissuto con i miei soldi. È tempo di ammetterlo.»
Dima si alzò.
«Sai una cosa? Forse è ora di rimettermi in piedi.»
«Forse.»
«Quanto tempo mi dai?»
«Sistemati entro fine mese. Tra sei mesi, se ti sostieni, ne ridiscutiamo.»
«E se non ce la faccio?»
«Non ce la fai, problema tuo. Io trovo qualcuno che ce la fa.»
Dima fece le valigie in silenzio per due giorni, senza litigare con Júlia, che non provò a fermarlo o aiutare.
«Lascerò le chiavi sul comò», disse mentre chiudeva l’ultima borsa.
«Fai pure.»
«E se ce la faccio? Trovo un lavoro normale, rientro tutti i debiti?»
«Se ce la fai, torna. Vedremo.»
«E se trovassi qualcun altro?»
«Può darsi che trovi.»
Dima si caricò le borse pesanti.
«Grazie per tutto il bene.»
«Non c’è di che.»
«E anche per avermi aperto gli occhi. Sono stato davvero pigro.»
«Lo sei stato.»
«Ci vedremo ancora?»
«Ci vediamo.»
La porta si chiuse dolcemente. Júlia rimase sola nell’appartamento di cui aveva pagato il mutuo, arredato da lei.
Prese un caffè, si sedette vicino alla finestra. La pioggia era cessata, il sole stava facendo capolino tra le nuvole. Il telefono sul tavolo poteva chiamare i genitori per raccontare le novità.
Ma non c’era nulla di speciale da comunicare. Solo il ritorno alla normalità della vita.
Una settimana dopo Dima mandò un messaggio: «Abbiamo preso una stanza, mi sono trasferito. Cerco un lavoro migliore.»
Júlia rispose: «In bocca al lupo.»
Un mese più tardi: «Cambio azienda, stipendio più alto.»
«Bene.»
Dopo due mesi: «Ho estinto un prestito, ne rimangono solo due.»
«Bravo.»
Júlia non nutriva rancore. Proseguiva la sua vita: lavoro, amiche, vacanze in campagna.
Forse il vecchio Dima sarebbe tornato. O forse non sarebbe più esistito.
In ogni caso, non era più un suo problema. Lei aveva una vita propria, tranquilla, indipendente, senza debiti o alimenti estranei.
E se Dima non si fosse raddrizzato, avrebbe trovato qualcun altro. Il mondo è pieno di uomini capaci di guadagnarsi da vivere, non di chi propone un conto comune solo dopo tre anni.
Per ora preparava il caffè del mattino, progettava la prossima vacanza italiana e assaporava un fatto semplice: non doveva nulla a nessuno.
La sensazione di libertà è davvero qualcosa di inestimabile.
Conclusione
La vicenda di Júlia e Dima mette in luce come, anche all’interno di una convivenza lunga e apparentemente solida, le questioni economiche possano creare tensioni profonde. L’indipendenza finanziaria e il rispetto reciproco risultano fondamentali per mantenere un equilibrio sano. Júlia ha scelto di mettere al primo posto la sua autonomia e il proprio benessere, invitando Dima a dimostrare responsabilità concreta e reale impegno. Questa storia sottolinea l’importanza della trasparenza e della chiarezza nei rapporti sentimentali, soprattutto quando si intrecciano con responsabilità familiari ed economiche.