Quando Lera ha deciso di difendere ciò che le spetta
Dopo una lunga giornata di lavoro, Lera tornò finalmente a casa con le gambe pesanti di stanchezza. Tutto ciò che desiderava era fare una doccia, mangiare qualcosa di leggero e godersi qualche momento di silenzio. Ma la quiete era lontana dall’essere presente.
Appena varcata la soglia, sentì delle voci provenire dalla cucina: suo marito Anton e la sua madre, Svetlana Petrovna, stavano discutendo.
Lera aggrottò le sopracciglia. La presenza inattesa di Svetlana Petrovna nel loro appartamento annunciava sempre qualcosa di spiacevole.
Tolse le scarpe, posò la borsa e si avviò lentamente verso la cucina. La scena che la accolse la fece restare senza parole: Anton era seduto al tavolo con davanti alcune stampe piene di numeri e grafici. A fianco, con aria da mentore esperta, c’era Svetlana Petrovna.
«Oh, Lera, sei arrivata!» disse la donna con un sorriso privo di calore, ma carico di un’oscura attesa.
Lera annuì, senza distogliere gli occhi dai fogli.
«Cos’è tutto questo?» chiese, indicando i documenti.
Anton alzò lo sguardo; nei suoi occhi brillava un misto di eccitazione e nervosismo; era ovvio che attendeva la sua reazione.
«Lera, cara, stavamo discutendo io e mamma…» iniziò Anton con una sicurezza insolita, quasi insistente. «Mamma pensa che potrei utilizzare quei soldi per avviare un’attività in proprio. Immagina, un business tutto mio!»
Lera scosse la testa, confusa, passando lo sguardo dal marito alla suocera. «Quei soldi?» si chiese mentalmente. L’eredità che suo padre le aveva lasciato, senza mai consultarla. Nessuna domanda, nessun rispetto: decisioni prese al suo posto.
«Quali soldi, precisamente?» la sua voce si fece bassa ma tagliente come lama. «Quali sono questi “soldi”?»
Svetlana Petrovna intervenne prontamente, con un tono mellifluo ma intriso di veleno:
«Come quali, Lera? I soldi che tuo defunto padre ti ha lasciato. Ti dispiace forse? Sono per la famiglia. Per il futuro di Anton. Per il vostro futuro insieme! Oppure intendevi metterli da parte solo per te, per qualche tuo capriccio?»
Una fitta calò sul volto di Lera; sentì il sangue affluirle alle guance e serrò i pugni fino a farle diventare bianche.
«L’eredità — scandì con fermezza come se colpisse ogni parola con un martello — appartiene a me. Solo a me. E tua madre, Anton» si voltò verso il marito con uno sguardo di ghiaccio, «non deve mettere il naso in questa faccenda! Non sono soldi suoi, né è un suo affare!»
Tornò il silenzio, pesante e soffocante. Svetlana Petrovna divenne pallida e il sorriso le scomparve dal volto.
Anton fissava Lera con occhi spalancati, come se la vedesse per la prima volta. Lei avvertiva il cuore martellare nel petto ma non aveva intenzione di cedere.
«Come osi parlare così?!» fu il primo a riprendere il fiato Svetlana, la voce tremante di indignazione. «Parlare in quel modo con gli anziani? Con la madre di tuo marito?»
«Mi permetto di difendere i miei diritti,» rispose Lera, mantenendo l’attenzione fissa su di lui. «E i miei soldi. Che, ripeto, sono solo miei.»
Il marito tentò di intervenire, ma la voce gli mancò.
«Lera, non dire queste cose… Mamma voleva solo il meglio…»
«Il meglio per chi, Anton?» La sua voce era decisa nel rivolgersi al marito. «Per te? Per lei? Ma per me, hai mai chiesto cosa voglio? Hai pensato almeno una volta ai miei desideri?»
Lui non replicò, smarrito e confuso.
«Era solo l’inizio di una lunga battaglia.»
Lera aveva perso recentemente suo padre, un colpo doloroso. Era stato l’unico a comprenderla appieno e sostenerla. L’eredità lasciatale era modesta ma significativa, rappresentava un appoggio solido per il futuro.
Cresciuta in una famiglia modesta, conosceva il valore di ogni centesimo. Ricordava come suo padre risparmiasse su tutto per garantirle un’istruzione e una vita dignitosa. Quei soldi non erano semplici numeri sul conto, ma simbolo di amore e attenzione.
Desiderava investirli nel domani: magari mettere da parte un acconto per un appartamento e allontanarsi finalmente dalla suocera invadente che abitava nel palazzo accanto e si intrometteva costantemente nelle loro vite.
Il rapporto con il marito era tranquillo, senza grandi conflitti ma anche senza passione. Anton era gentile ma passivo, sempre alla ricerca della propria strada, cambiando lavoro frequentemente: prima aspirava a diventare fotografo, poi designer, poi voleva aprire un negozio. I suoi progetti finivano spesso nel nulla mentre Lera reggeva le redini economiche della famiglia.
Svetlana Petrovna non aveva mai nascosto il disappunto per lei, ritenendola inadatta al figlio.
«Anton è così talentuoso,» ripeteva. «Ha bisogno di una donna forte. Lera? È brava, certo, ma comune.»
Credeva che il marito dovesse guidare e la moglie supportare la sua vita e le sue aspirazioni, anche la sua pigrizia.
«L’uomo deve essere il capo,» la ammoniva spesso. «La moglie deve essergli sostegno. Il tuo compito è ispirarlo.»
Dopo il ricevimento dell’eredità, iniziarono le pressioni, dapprima sottili poi sempre più insistenti.
Svetlana: «Anton ha mille idee, è un ragazzo capace. Bisogna solo dargli una spinta!»
Anton: «Sto pensando, forse con quei soldi…»
Svetlana: «Con i soldi del vostro defunto padre nascerà l’azienda di tuo marito. Sarebbe un bellissimo ricordo di lui, Lera. Lui sarebbe orgoglioso!»
Lera rimaneva in silenzio, consapevole che tutto ciò non riguardava la memoria del padre né l’aiuto a suo marito, ma la volontà di controllare i suoi fondi e la sua vita.
«Sei in silenzio, Lera? Non vuoi che tuo marito abbia successo? Non desideri il meglio per voi?» insistette Svetlana.
Lei voleva stabilità, non trasformare i suoi risparmi in un altro fallimento di business nelle mani di Anton. Ma loro non l’ascoltavano, guardavano solo il denaro e il proprio interesse.
Svetlana, appoggiata da un’amica, parlava con passione dei suoi piani. La sua tazza di tè rimaneva quasi intatta mentre si infiammava per l’idea.
«Certo, i soldi sono suoi,» ammetteva a bassa voce, «ma lui è il marito, è famiglia. Lei pensa solo a se stessa.»
L’amica annuiva, quasi complice.
«Esatto! Lei non capisce cosa sia la vera famiglia. Pensa solo a sé stessa. E Anton? È mio figlio! Deve avere un ruolo, un futuro! L’uomo deve crescere!» rifletteva alta e fiera.
Convinta di sapere cosa fosse giusto, credeva che «mogli vanno e vengono, ma il figlio è per sempre» e il suo compito era garantire al figlio un futuro dignitoso, anche a costo di «prendere in prestito» i soldi della nuora.
«Per lei quei soldi sono solo cifre,» insisteva. «Per Anton sono un’opportunità: di crescere, di diventare uomo!»
Ma per lei era più la possibilità di sentirsi importante e influente. Non voleva vivere modestamente, sperava che il figlio le comprasse una casa al mare, una macchina, vacanze costose. Tutto ciò richiedeva denaro.
«Non lo faccio per me,» si giustificava con l’amica, più a se stessa che agli altri, «ma per lui, per il loro futuro!»
Quella «assistenza» era in realtà un attacco travestito da cura. Non domandava a Lera cosa volesse, prendeva ciò che riteneva necessario.
«E Lera?» chiese l’amica.
«Lera è un ostacolo perché non obbedisce, segue le sue idee. Ma devono prevalere le nostre! Le mie!» rispose Svetlana con disprezzo.
Sentiva la resistenza di Lera, ma ne era stimolata, certa della sua correttezza e sicura che Anton sarebbe sempre stato dalla sua parte. Amava la madre più di ogni altra cosa e avrebbe sempre seguito la sua volontà.
«Dobbiamo solo fare pressione,» sussurrò Svetlana. «Lui cederà. E Lera? Lì dove può andare?»
Il giorno seguente la discussione si riaccese. Probabilmente Svetlana aveva parlato a lungo con Anton, che tornò deciso.
«Lera,» cominciò appena lei uscì dal bagno, «dobbiamo parlare seriamente.»
Lera annuì senza parole: già sapeva l’argomento.
«Non mi supporti,» disse lui con tono offeso. «Hai i soldi, io non valgo nulla… Mi sento inutile.»
Lei lo guardò calma ma penetrante.
«Non vali nulla perché tua madre decide tutto per te, Anton. Se vuoi essere un uomo, impara a guadagnarti da vivere, a prendere decisioni, a essere responsabile, invece di nasconderti dietro la gonna di tua madre e i miei soldi.»
Anton impallidì.
«Cosa dici?!» esplose, visibilmente arrabbiato. «Mi umili, mi offendi!»
«Dico la verità,» rispose Lera, «che non ti piace perché è scomoda.»
Si alzò sbattendo la porta della camera, poi quella d’ingresso e se ne andò. Lera non si scosse. Conosceva già la sua meta: da sua madre, per cercare conforto e compassione.
La sera ricevette una chiamata da Svetlana Petrovna. Lera rispose. Appena messa la cornetta al orecchio, la donna urlò:
«Hai distrutto la sua fiducia! Lo stai abbattendo! Piange, ti rendi conto? Vuoi che si rovini?»
Lera mantenne la voce calma e quasi indifferente.
«Non ho fatto nulla, Svetlana. Sta distruggendo la sua vita da solo, e voi lo state aiutando.»
«Io lo aiuto?!» strillò la suocera. «Sono sua madre! Lo sto salvando! E tu… sei solo invidiosa!»
«Non provo invidia,» rispose Lera. «Sono stanca, stanca dei vostri giochi e della sua debolezza.»
Riattaccò e tirò un respiro profondo. Sapeva cosa fare.
Il giorno dopo era al computer: aveva trasferito la maggiore parte dei fondi in un fondo di investimento intestato a sé stessa. Una parte più piccola ma comunque significativa, era stata spostata sul conto del loro figlio. Nessuno tranne lei e il bambino avevano più accesso a quei soldi: né Anton né Svetlana Petrovna.
Il telefono squillò nuovamente: era Anton.
«Lera!» gridò al telefono, furioso. «Sei impazzita?! Ho ricevuto una notifica dalla banca! Hai bloccato il conto! Vuoi farmi morire di fame?»
Lei rispose pacata: «No, Anton. Sto solo proteggendo me e nostro figlio. Quei soldi sono nostri, non tuoi né di tua madre.»
«Tutto per una lite?» la sua voce tremava tra rabbia e disperazione. «Solo perché volevo avviare un business?»
«No, Anton,» scosse la testa Lera. «È perché tu non sei un uomo ma un’appendice di tua madre. Perché non sai decidere, sei un codardo, e mi hai tradita.»
Nella cucina Lera si preparava il caffè, il profumo dei chicchi appena macinati riempiva la casa, scacciando odori e ricordi sgradevoli. Taceva tutto: solo il tintinnio del cucchiaino nella tazza, una musica di pace mattutina senza urla né manipolazioni.
Improvvisamente la chiave girò nella serratura. Lera trasalì. Era Anton, tornato a casa. Non si voltò, continuò a mescolare il caffè.
Lui entrò in cucina con il volto stanco e gli occhi arrossati, tra colpe e rassegnazione.
«Lera… forse ho esagerato con quell’idea… Ho riflettuto.»
Lera sollevò lo sguardo con calma.
«È troppo tardi, Anton,» rispose con voce ferma e priva di emozioni. «Quei soldi non sono più in discussione. Sono al sicuro. E anche tu.»
Lui rimase in ingresso, incerto se entrare. Smarrito.
In quel momento corse fuori dalla stanza il piccolo Misha, ancora mezza addormentata con i capelli arruffati.
«Papà!» lo chiamò vedendo Anton. «Te ne vai o sei tornato?»
Anton si bloccò, guardò il figlio poi Lera. Le labbra si mossero senza riuscire a formare parole.
Lera non attese risposta, si voltò, prese la sua tazza di caffè e si avvicinò alla finestra. Il sole sorse sopra la città, promettendo un nuovo giorno. Il suo nuovo inizio, lontano da lui, da sua madre, e dalle manipolazioni infinite. Solo lei e suo figlio.
Conclusione:
Questa vicenda mette in luce quanto sia fondamentale difendere con fermezza i propri diritti e le proprie risorse, soprattutto quando si tratta di un’eredità che rappresenta il frutto di sacrifici familiari. La determinazione di Lera a tutelare il futuro suo e del figlio contro le ingerenze opprimenti dimostra il valore della forza personale e dell’indipendenza anche nei rapporti più delicati, dove a volte la famiglia può trasformarsi in fonte di conflitto anziché sostegno.